di
Anna Maria Sanfilippo
In una
gradevolissima serata di luglio dell’anno scorso, a casa mia in campagna,
durante una amichevole conversazione con gli attuali proprietari del villino di
Scerbi, Milena e Paolo Sieli, circostanze favorevoli hanno fatto sì che potessi
parlare dell’opera murale che Antonio Sanfilippo, cugino di mio padre, aveva
dipinto durante l’estate del 1943, proprio nel villino di Scerbi a Partanna.
Paolo,
ingegnere progettista, mi aveva comunicato che a giorni sarebbero iniziati i
lavori di demolizione per la ricostruzione della casa di Scerbi che Milena, sua
moglie, aveva ereditato dai genitori i quali l’avevano acquistata negli anni
cinquanta. Mi raccontava che il bene era stato occupato impropriamente e che,
solo a seguito dell’intervento dell’autorità giudiziaria, l’immobile, da poco,
era ritornato in loro possesso.
Dopo
averlo ascoltato, quasi lo implorai a ritornare indietro rispetto alla
determinazione di abbattere il fabbricato, danneggiato gravemente dagli eventi
sismici, ma certamente ancor di più dall’incuria e dall’abbandono che negli
anni lo avevano ridotto in uno stato di precarietà assoluta, se prima non
avesse verificato l’esistenza di quel dipinto murale di cui tanto avevo sentito
parlare dai miei familiari.
Devo
dire che li trovai particolarmente sensibili a quanto cercavo di argomentare;
vollero che raccontassi loro quello che sapevo e ancor meglio quello che a
casa, per primo da mio padre, poi dalla zia Concetta, sorella di Antonio Sanfilippo,
ma sopratutto da mio zio Italo, fratello di mio padre, avevo sentito narrare.
All’interno
di quell’immobile, “nella casa di Scerbi” mi dicevano, esisteva un grande
dipinto che occupava le pareti della sala al primo piano. La casa di Scerbi
rappresentava per lo zio Totò – così noi lo abbiamo sempre chiamato – un posto
tranquillo, un po’ lontano dal paese dove gli piaceva andare a dipingere e dove
si ritrovava spesso con gli amici.
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La casa di Scerbi |
La
possibilità di riportare alla luce il dipinto murale, divenne un fatto concreto
quando l’ing. Paolo Sieli, dopo alcuni giorni dal nostro occasionale incontro,
con aria soddisfatta mi chiamò al telefono invitandomi a Scerbi. Mi accompagnò
al primo piano e mi mostrò quello che era venuto fuori non appena sfiorato lo strato
di calce color azzurro cielo che ricopriva le pareti. Era visibile già parte di
un corpo nudo con chiare fattezze femminili, dai colori che andavano dal seppia
al giallo scuro.
Ero
felice, perché quel dipinto realizzato nella lontana estate del 1943, da tutti
ritenuto perduto, ritornava e si concretizzava ai miei occhi. Dopo tale
scoperta, i proprietari, piuttosto che proseguire nel progetto di demolizione,
hanno deciso di avviare le procedure per l’elaborazione di un progetto di
restauro dell’immobile, certamente più impegnativo da tanti punti di vista, e
di avviare l’immediata messa in sicurezza del fabbricato, così da consentire a
tecnici esperti di portarlo interamente alla luce attraverso un attento e
accurato restauro.
Mio
padre mi aveva parlato tante volte di quest’opera ma, come già accennato, è
stata soprattutto decisiva la testimonianza dello zio Italo il quale, avendo
avuto da ragazzo più volte occasioni di entrare in quella stanza, ed avendo più
volte ammirato e direi quasi contemplato quel dipinto, è ancora oggi, in grado
di descriverlo nei particolari, ricordando posture, colori, espressioni del
volto di quell’allegra comitiva ivi raffigurata.
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Particolare del nudo |
Io non
ho certo le competenze per entrare in valutazioni critiche riguardanti il
percorso artistico di Antonio Sanfilippo pittore; sarà compito degli studiosi
quando l’opera giovanile sarà interamente riaffiorata e completato il relativo
restauro. Quello che sento di dire è che, certamente sulla base di componenti
affettive e di una sensibilità rafforzata via via negli anni, ho avvertito
sempre più forte la spinta a documentarmi sulle motivazioni di fondo della sua
ricerca pittorica, riscontrando un’affinità con il suo stile di vita misurato,
tendenzialmente taciturno, ma straordinariamente ricco per profondità di
sentire ed eleganza relazionale.
In
seguito, per un ulteriore caso fortuito, l’ing. Sieli ed io parlammo del
ritrovamento ad un amico comune, il professore Vito Zarzana,. Questi ne informò
la direttrice del Museo Riso, prestigioso museo di arte contemporanea della
Sicilia, la dottoressa Valeria Li Vigni la quale, dopo un sopralluogo e dopo
avere visionato quella parte di dipinto che già era stato scoperto, certificò,
con la consulenza del professore Bruno Corà, l’autenticità del dipinto murale
denominato “l’Atelier” di Scerbi, opera giovanile di Antonio Sanfilippo.
L’impegno
dei proprietari dell’immobile nell’eseguire, prioritariamente, i lavori di
ripresa strutturale del fabbricato e successivamente i lavori di restauro del
dipinto ritrovato, mi hanno dato un ulteriore impulso a continuare a
contribuire a tutte le iniziative volte a portare definitivamente alla luce
questo significativo e importante lavoro del giovane Antonio Sanfilippo.
Che si
tratta di un lavoro di particolare interesse per la conoscenza del percorso
artistico di Sanfilippo, lo affermava Benedetto Patera nel
fascicolo-supplemento della rivista Kalòs (1991), interamente dedicato alla
“poesia del suo segno-colore”: «Nel frattempo - egli scrive - a Partanna aveva
dipinto a più riprese le pareti del villino di Scerbi, raffigurando, nella più
ampia di esse, “l’Atelier”, per cui posarono alcuni dei suoi amici insieme alla
ragazza partannese più in vista del momento: opera purtroppo perduta». Così nel
catalogo “La vita e l’opera di Antonio Sanfilippo”, Pier Paolo Pancotto
scriveva: «Nel 1943 tornato a Partanna per le vacanze estive è costretto a
rimanervi a causa degli eventi bellici. Ottiene la cattedra di disegno presso
l’Istituto Magistrale cittadino e si dedica alla decorazione (perduta) del
villino di Scerbi».
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Veduta di Scerbi. Olio su tela, collez. privata |
Per
concludere, ritengo utile e pertinente citare alcune personali espressioni di
Antonio Sanfilippo riguardanti la tenuta di Scerbi, vista da lui come
“Atelier”: «Se mi inoltro nella valle, che è ai piedi della casa, ma un po’
discosta, mi accade di vedere cose che veramente mi estasiano. Una natura la
più esuberante che si possa immaginare (…): alti alberi, salici, pioppi (…); il
viottolo si interna tra macchie altissime dove spicca qualche tronco grigio
perla o addirittura arancio e rosso. Con il sole che penetra tra i rami e le
foglie diventa una magìa: gialli, verdi, rossi arancioni (...) come si fa a
suscitare la stessa emozione? Mi sento incapace (…). In questi ultimi mesi sono
stato in campagna (a Scerbi) ogni giorno (…). Ho dipinto paesaggi, ritratti, è
stato bello. Anche se a volte non dipingevo, vivevo lo stesso esteticamente» (Catalogo
Generale: 310).
Mi
piace infine riportare qui di seguito la testimonianza di mio zio Italo
Sanfilippo, autore, tra l'altro, di numerose pubblicazioni di interesse
pedagogico e unica persona ancora vivente che ha visto tale dipinto nella fase
dell’esecuzione e, successivamente, nella sua definitiva compiutezza.
La testimonianza del cugino Italo
Sanfilippo
«Ho seguito con vivo interesse e
particolare emozione le fasi progressive di ricerca che l’architetto Anna Maria
Sanfilippo ha condotto con la particolare discrezione che il caso richiedeva,
per poter approdare, sulla base di indici attendibili, al ritrovamento
dell’esteso dipinto parietale eseguito da “Totò della zia Fedele”(così
chiamavamo Antonio Sanfilippo nella cerchia parentale) nel suo villino di
Scerbi, agli inizi della sua formazione pittorica.
Più
volte con Anna Maria ne abbiamo parlato, non rassegnandoci all’idea che fosse
definitivamente perduto. I passi fatti per giungere all’autenticità del
rinvenimento sono stati resi noti ufficialmente nel corso dell’incontro
tenutosi recentemente, il 23 novembre 2014, al Castello Grifeo di Partanna, cui
hanno partecipato autorità competenti sul piano artistico-culturale e tecnico
amministrativo.
Il mio
apporto “a distanza” è consistito nel fornire nitide indicazioni, nonostante il
tempo trascorso, che potessero garantire al tempo stesso l’autenticità della
scoperta e la puntuale descrizione di quella gioiosa composizione pittorica, di
chiaro sapore goliardico, più volte da me osservata e direi quasi contemplata.
Restano
vive, infatti, nel ricordo, la naturalezza delle posture, l’armoniosa
distribuzione del colore, l’espressione gioiosa dei volti da cui trasparivano
le specifiche connotazioni temperamentali di ciascuno, che Totò aveva saputo
rendere con sorprendente naturalistica incisività e con quella capacità di
penetrazione psicologica che solo il genio pittorico riesce a realizzare.
Avevo
all’epoca circa nove anni, ed ero di casa per la particolarità del legame
parentale: mia madre e sua madre erano sorelle; mio padre e suo padre, oltre ad
essere fratelli, erano entrambi maestri di scuola elementare, ed io sono stato
alunno di suo padre negli ultimi tre anni della scuola elementare.
Questa
particolare familiarità mi consentiva di frequentare spesso la loro casa,
sentendomi affettuosamente accolto.
Erano
gli anni dell’immediato dopoguerra, Antonio tornava in famiglia nel periodo estivo
e trascorreva lunghe ore nel suo studio situato nella stanza attigua al salotto
di casa o nell’atelier di Scerbi, dove si incontrava spesso con la sua cerchia
fidata di amici.
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Scerbi,Agosto 1937,Sanfilippo con familiari |
Era il
corpo umano, in quel tempo, oggetto specifico della sua ricerca pittorica,
volta soprattutto ad indagare il mistero dei tratti del volto. Oltre ad
eseguire diversi suoi autoritratti con esiti pittorici diversi, come gli
esperti chiariranno, chiedeva spesso a persone della cerchia parentale e
amicale di posare per lui.
Era
poco loquace, ma, paziente, se gli esprimevo le mie curiosità sugli strumenti
del suo lavoro (allora si dedicava anche alla scultura additiva), sul perché
sulla tavolozza pasticciasse continuamente i colori con un ritmo tutto suo, e
perché da un certo momento in poi non ritraesse più i particolari del volto
umano, si disponeva a spiegarmi.
Ricordo
ciò, a proposito di un suo particolare quadro di ispirazione biblica,
riproducente il “Sacrificio di Isacco”, dipinto più volte modificato con
valenza quasi catartica: dall’iniziale postura di Abramo nell’atto crudele di
sacrificare il figlio, alla successiva scelta di rappresentare il momento
risolutorio del dramma con l’intervento dell’angelo che gli restituiva illeso
il figlio. Non è esclusa, a mio vedere, l’influenza di Carena che proprio in
quel tempo in un suo dipinto del 1939 aveva raffigurato “Giacobbe che lotta con
l’angelo” (cfr. Catalogo generale dei dipinti di A. Sanfilippo, a cura
di Appella e D’Amico: 9), ma chi conosce la conflittualità (espressamente
dichiarata da Antonio in una delle sue lettere del tempo) che egli ebbe con suo
padre, il quale non condivideva e osteggiava la sua scelta di dedicarsi all’arte
pittorica, non può non cogliere, nel rifacimento di cui sopra, la travagliata
soluzione di conflittualità edipiche. Sono aspetti che solo ora riesco a
cogliere nella loro autentica valenza esistenziale.
E fu
allora, di fronte a quei due volti espressivi, ma non definiti nei particolari,
che così rispose alla mia domanda: «Non sempre è facile far vedere quello che
possono provare le persone in certi momenti». La riproduzione di tale dipinto,
accanto a quello di “Veduta di Scerbi” è riportata a nel Catalogo Generale dei
suoi dipinti (115).
Questi
brevi cenni, per rendere chiara l’opportunità che ho avuto di rimirare il
dipinto parietale recentemente ritrovato e non ancora pienamente riportato alla
luce. Ho assicurato ad Anna Maria la mia collaborazione nella delicata fase del
totale recupero. Spesso con Antonella, unica figlia di Totò, parliamo di questa
fase giovanile di suo padre, alla quale lei è particolarmente interessata.
Addentrandomi,
recentemente, nei contenuti e nelle puntuali valutazioni critiche di Appella e
D’Amico, nel prezioso Catalogo cui si è fatto cenno, ho avuto modo di rilevare,
sulla base di una documentazione inequivocabile, l’incidenza delle prime
produzioni pittoriche di Antonio, realizzate nell’atelier di Scerbi, sulla sua
successiva e pluridirezionale produzione pittorica, che ha toccato le vette più
alte nella sperimentazione astrattista e spazialista, in costante evoluzione
creativa fino alle travagliate ultime sue opere.
Numerosi
critici, infatti, hanno individuato nel suo “segno”, definito “poetico” per la
sua leggerezza e profondità polisemica, la presenza in filigrana della
particolare luminosità e della esuberante vegetazione mediterranea, nonché il
ricorrente “tema dell’isola”, segno chiaro di nostalgici rimandi ai suoi esordi
“particolarmente felici, pieni di quella creatività e lucidità priva di
problemi e tesa positivamente verso il raggiungimento di una meta”. Sono parole, quest’ultime, pronunciate da
sua moglie, la pittrice Carla Accardi, in un’intervista del 1992».
Dialoghi
Mediterranei, n.11, gennaio 2015
Anna
Maria Sanfilippo, laureatasi nel 1981 in Architettura presso l’Università degli studi
di Palermo, esercita senza soluzione di continuità la libera professione di
architetto dal 1982 ad oggi. Si occupa della progettazione e della direzione
dei lavori di opere con committenza privata e pubblica, ha partecipato a numerosi corsi di progettazione, convegni e
seminari e ha curato mostre e allestimenti espositivi.