( Foto di L.Tumbarello) |
Nei secoli passati,
oscuri artigiani e maestranze hanno dedicato la loro vita, con l’abilità e l’umiltà
del loro lavoro, a costruire con maestria l’immenso patrimonio di bellezza unico
al mondo e da tutti invidiato. Adesso quello stesso patrimonio quando non
rischia di scomparire, viene spesso ferito, dilaniato, oltraggiato non solo dall’incuria
e dal degrado ma dalla stessa mano dell’uomo. Quegli anonimi maestri erano
guidati dall’orgoglio di partecipare ad un opera destinata a durare nel tempo,
erano fieri di lavorare per il futuro e per la gloria del loro paese. Orgoglio
che purtroppo in questa città la collettività ha smarrito, avendo perduto il
senso del futuro che è “il dovere” lasciare un mondo migliore di quello avuto
in eredità. L’abbandono del proprio patrimonio culturale riflette la decadenza
morale di una società che ha perduto il senso dei valori più profondi, quello
della propria identità, della propria storia, della propria cultura, e che si avvia
tristemente verso un futuro privo di passato, ovvero verso un futuro senza
futuro, come una zattera alla deriva.
Mazara ha nel suo
D.N.A questo gene del disfacimento della memoria, di accidia, di colpevole
disattenzione, di apatia generale, di indifferenza, ed è attraverso
quest’ultima che si consuma uno scempio su un simbolo della città. Viene in tal
modo flagellata la dignità, mortificata la storia, attraverso uno scellerato
quanto irragionevole innesto di un corpo estraneo, anonimo, in quella che è
tuttora la millenaria scalinata tufacea, l’acchianata
naturale che conduce alla bella e caratteristica chiesetta normanna del XI
secolo: Santa Maria delle Giummare o Madonna
dell’Alto come viene chiamata dal popolo, fatta erigere da Giuditta
D’Evreux, moglie di Ruggero D’Altavilla.
Già contaminata da una
toponomastica infelice e disattenta alla peculiarità del luogo, attraverso
l’intitolazione della salita a Attilio Bertolucci, che nulla ci azzecca con la
storia e la cultura della città, adesso la stessa chiesetta ha dovuto subire un’ulteriore
offesa, ancor più grave, che ne deturpa la secolare bellezza.
Così viene
costruita, da un giorno all’altro, in piena luce, tra l’indifferenza generale,
una scala in conci di tufo, di maldestra manifattura, altro che maestranze di
un tempo, senza che nessuno abbia niente da ridire: la Chiesa che ne è
proprietaria e custode, il Comune che ne deve dare l’autorizzazione, la
Soprintendenza ai monumenti che deve vigilare. Quel corpo estraneo rappresenta
la conseguenza dello scarso senso estetico della collettività accompagnato da
un deficit di etica pubblica. Inoltre descrive la perdita del senso del bello, anzi
sembra che la bellezza dia molto fastidio; così i monumenti vengono abbandonati
all’incuria, umiliati da vicine discariche, abbandonati alle erbacce e
sterpaglie. Tutto è
stato consumato in presenza di una comunità apparsa in catalessi, incapace di
indignarsi persino di fronte al vandalismo imperante In questa città è successo
e succede! L’incuria del territorio lo ha privato di identità, ne ha cambiato
la fisionomia, ha offuscato la memoria dei suoi abitanti ai quali è stata
negata quel che la natura ha loro donato: la capacità di godere e meravigliarsi
del bello. La bellezza del paesaggio è un patrimonio collettivo da rispettare,
da accudire e da preservare, non appartenendo alla sola sensibilità di alcuni
esteti ma all’intera comunità. Questo in tutte le parti tranne che a Mazara,
dove le tre istituzioni tacciono,se non si compiacciono, di tale scempio.
(Foto di L.Tumbarello) |
Insieme, per le
proprie responsabilità, Comune, Chiesa e Soprintendenza incarnano alla
perfezione le tre scimmiette: Non vedono,
non sentono, non parlano. Ma il popolo non è da meno.
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