di
Clelia
Bartoli
Il racconto di un incontro fortuito tra due
giovani ragazze in cerca di identità, straniere entrambe ma in diverso modo…
Sari
frusciante e inamidato, ancora troppo vaporoso ma di grande effetto, di colore
sfacciato a confronto con i sobri toni del blumarron-grigiobeige imperante tra
muri, abiti, divise ed auto dell’italico suolo.
Silvia
avanza impacciata e orgogliosa nella sua nuvola confetto, la segue una valigia
a rotelle contenente i pochi effetti che traghetteranno con lei dalla vecchia
alla nuova vita. È arrivata al porto, raggiunge il molo, si imbarca, salpa
sull’attempato traghetto che rimbalza, anni or sono, tra Palermo e
Civitavecchia.
Ricevute
le chiavi, Silvia si avvia versa l’economic cabin. Tale alloggio marino a buon
mercato è un loculo biposto, privo di oblò, mancante di bagno e, se si viaggia
soli, da condividere con passeggero sconosciuto; l’equipaggio non garantisce
sulla compatibilità caratteriale, ma si premura di evitare pernottamenti
promiscui: uomini con uomini, donne con donne.
La
ragazza aggrovigliata nel sari con a seguito il fagotto rotante ripensa alla
sua scelta, a ciò che lascia e a ciò che troverà, giunta davanti alla porta
l’apre di scatto, dimentica di potervi trovare l’altro femmineo essere con cui
spartirà la notte. Sundari, già alloggiata nella cabina, sobbalza all’ingresso
improvviso.
Silvia
e Sundari si ritrovano faccia a faccia: Silvia nel suo sari color fiore di loto
appena colto, Sundari nei suoi jeans sbiaditi, Silvia rosea e dalla composta
treccia bionda, Sundari dalla pelle marrone con corti capelli nero corvo.
A
causa dello spavento o per la meraviglia, Sundari non si trattiene e, soffocando
una risata, le chiede: «Come ti sei conciata?». La domanda non voleva essere
irriverente, anzi sorgeva da un istinto protettivo da sorella maggiore: a
Sundari era apparsa imbarazzante l’immagine di quella ragazza italiana
infagottata in un sari fucsia squillante, ancora incapace di indossarlo con la
dovuta dimestichezza, con le piegature mal fatte che le creavano un disarmonico
bozzo sull’addome. Per riparare al quesito indiscreto e volendo salvare la
fanciulla da un farfugliamento in cerca di una risposta convincente, Sundari
aggiunge: «Scusami, intendevo dire che le pieghe del sari non sono fatte come
si deve e così forse sei un po’ scomoda, se vuoi ti aiuto a indossarlo meglio».
Silvia annuisce, pur di non rispondere all’interrogativo che l’aveva gettata in
confusione, e si lascia sfilare il sari dalla gonna sottostante, Sundari lo
piega con perizia e glielo rimodella addosso dandogli una forma aggraziata che
la soddisfa alquanto. L’intimità di quella operazione spazza via il disagio e
allestisce tra le ragazze un clima di confidenza.
«Il
sari è un vestito bellissimo – commenta Silvia – ma è così difficile da
indossare». «Quand’ero piccola anche a me piaceva molto metterlo, mi sentivo
una principessa, era la cosa più simile ai vestiti di Barbie che conoscessi, ma
adesso saranno anni che non lo metto più».
«Come
mai? Se lo sapessi mettere come sai fare tu… Ma non vuoi più indossare i
vestiti del tuo paese?»
«Beh,
forse è proprio questo il punto, l’India è il mio paese? Sono in Italia da
ventidue anni e ne ho ventisette. E poi senti da che pulpito: tu perché non
indossi i vestiti del tuo paese?»
«Sto
provando a diventare indiana, o meglio a diventare indù, sai sono appena andata
via da casa e sto per entrare in una comunità induista. Ma tu sei induista?».
«In
realtà non sono in stretti rapporti con Dio, non solo con Visnu e consorte, ma
con Dio in generale. Se stai diventando induista saprai che Dio si copre con
l’abbagliante velo di Maya per non essere troppo invadente, per lasciarci
liberi; ma a me si è nascosto sotto una coperta spessa che non lascia trapelare
nessuna forma, nessun indizio di una presenza oltre di essa e così me lo sono
dimenticato o forse mi ha dimenticato. Il risultato è che mi sento più leggera
e anche più spaesata. Spaesata è un buon termine: senza paese, nemmeno
nell’aldilà. Ma non farmi filosofare troppo, a te com’è venuto in testa di
darti all’induismo?».
«Potrei
darti molte risposte: che sia stata l’insondabile misericordia divina a
mettermi su questo cammino o il mio bisogno ostinato di risposte, la paura di
crescere o la vocazione da missionaria. Sono tutte ragioni plausibili, ma
sforzandomi di essere brutalmente schietta, proprio perché tra poco questa nave
mi partorirà ad una nuova esistenza, ed è meglio iniziarla con sincerità, credo
di essere in cerca di un’identità. Questo abito e questi segni che indosso
testimoniano che ho fatto una scelta, che ho una fede e un’appartenenza, dunque
fanno subito di me qualcosa di distinto, mi sembrava di non essere nulla senza
distinguermi e l’abbracciare la religione indù così bella, intensa e così
severa mi sembra il modo migliore per distinguermi».
«Buffo,
sei il mio rovescio: la mia vita è stata ossessionata dal voler assomigliare.
Per me identità ha sempre significato somiglianza piuttosto che distinzione.
Volevo assomigliare alle mie compagne e ai miei compagni di scuola, rimanere
indistinta nella scolaresca che sboccava dai portoni al suono della campanella
e invece quelle signore imbiondite dai loro parrucchieri mi indicavano: “Ma che
bellina quella bimba di colore. Chissà se mangia abbastanza? Ha delle gambette
così secche”. Avrei voluto assomigliare a Candy Candy, alla maestra e alla
Madonna; alla bambina dirimpettaia che non era un granché ma faceva simpatia a
tutti; e invece trovavo il mio omologo solo in quelle illustrazioni da
sussidiario di stupidi girotondi che stereotipano le razze del mondo, fingendo
di rappresentare concordia e pace globale. E poi ho sempre odiato quella
demenziale e martellante domanda “di dove sei?” che mi ricordava che c’era
qualcosa in me che mi faceva apparire subito diversa. Ma soprattutto avrei
voluto assomigliare ai miei genitori e invece, man mano che crescevo, siamo
diventati sempre più dissimili e distanti. I miei non sono andati mai via dall’India,
anche se hanno preso un aereo che li ha portati a Roma. In Italia hanno
lavorato, hanno fatto casa, vissuto e forse ci moriranno. Ma solo ciò che
succede in India è davvero importante per loro: le notizie, le persone e i
personaggi di qui sono vaghe sagome sullo sfondo».
Silvia
tenta di incoraggiarmi dopo aver ascoltato il mio sfogo: «Forse sono solo un
po’ nostalgici, anche mio padre lo era quando lavorava al nord; ma mi sembra
impossibile non assomigliare ai propri genitori».
«La
lingua ci ha allontanato: l’italiano dei miei si è arrestato presto ad un
livello bastante alla sopravvivenza, mentre diventava la lingua dei miei
pensieri e dei miei sogni; la mia lingua madre si è fatta matrigna, ho quasi
dimenticato il maharati. Le cose più intime, più profonde le avrei potute dire
solo in italiano, ma né mia madre, né mio padre le avrebbero intese. E così è
successo che ci ritrovammo ad abitare nella stessa casa e in due continenti
diversi».
«E
pensare che io ebbi un fremito di paura quando scoprii che crescendo stavo
diventando sempre più simile a mia madre. Mi imposi di fuggire dal suo modello,
non perché lo rinnegassi, ma per sentire che quello che sarei diventata era
un’identità mia e non ereditata passivamente, non volevo crescere nella stampo
utilizzato per i miei genitori».
«Penso
di capirti. In fondo mi sento orgogliosa di essere cresciuta senza
un’appartenenza rigida. Mi sento brava quando penso che sto reggendo, pur con
un’identità malferma e confusa, senza modelli, essendo continuamente scambiata
per qualcosa che non sento di essere; ma è faticoso e non so nemmeno se,
potendo scegliere come rinascere, mi addosserei nuovamente il peso del costante
smarrimento, ma soprattutto la solitudine del non assomigliare a nessuno».
«Anche
io penso di capirti. Sto fuggendo dalla somiglianza verso la mia famiglia,
dalla religione degli avi, dai copioni prescritti dalla tradizione, ma forse
perché anche io me ne sento esclusa o meglio estranea; sto andando in cerca di
un’appartenenza più forte, cerco compagni di fede, una famiglia sublimata o
surrogata in cui essere nuovamente figlia. Ma a proposito tu dove stai
andando?».
«Più
che andare sto tornando, torno alla solita vita, e vengo da un concerto. Ogni
tanto ci vado, perché c’è folla e c’è buio e tutti cantano con una sola voce e
guardano nella stessa direzione. Durante quel paio d’ore mi sento uguale a
tutti, è un’uguaglianza rozza, da gregge se vuoi, ma è il mio illusorio
sollievo al non assomigliare a nessuno e poi mi piace la musica».
«Anche
a me piace la musica».
«Allora
forse non siamo così diverse».
«Forse
vogliamo cose simili, per esempio io adesso ho voglia di dormire, e tu?».
«Anch’io,
buona notte».
E
la nave oscillando le condusse ad un nuovo porto, provvisorio rifugio.
Fonte: DialoghiMediterranei, n.8, luglio 2014
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Clelia Bartoli, docente di “Diritti umani” presso
l’Università di Palermo, già esperta presso la struttura di missione del
Ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. Dal 2013 è consulente, a titolo
gratuito, del Comune di Palermo per le politiche relative alla popolazione Rom.
Tra i suoi libri: le curatele: Sull’universalità dei diritti umani (Firenze
University Press, 2003) e Esilio/Asilo. Donne migranti e richiedenti asilo in
Sicilia (Ed. DuePunti, 2010). Le monografie: Il monoteismo hindu. La storia, i testi,
le scuole (con Federico Squarcini, Pacini, 1997); La teoria della subalternità
e il caso dei dalit in India (Rubettino, 2008);Razzisti per legge. L’Italia che
discrimina (Laterza, 2012).
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