foto Luigi Tumbarello |
Un
gran battage pubblicitario ha preceduto e seguito l’inaugurazione dell’Expo
2015 a Rho, periferia di Milano.
Ma
ne vale la pena visitarlo? La domanda me
la sono posta dopo avere trascorso, con fatica, uscendone stremato,un’intera
giornata tra i padiglioni posti ai due lati del Decumano, lunghissima fiumana umana.
Arriviamo
a Rho, mia moglie ed io, nella prima mattinata, in metropolitana. Tempo
impiegato da piazza Duomo appena una mezzoretta. All’ingresso dell’Expo si rimane colpiti nel vedere migliaia di persone fare la fila in attesa di entrare nell’area
espositiva. Avendo prenotato e pagato on line i biglietti abbiamo
diritto di precedenza, potenza di internet, e una volta superati i
tornelli e i relativi metal detector, ci
siamo trovati paracadutati nel maestoso viale espositivo coperto da gigantesche vele
ombreggianti, non prima di avere percorso alcune centinaia di metri a piedi.
Quisquilie rispetto a quel che ci aspettava.
foto Luigi Tumbarello |
“ Divinus Halitus Terrae” con questo messaggio
ti accoglie Expo2015. È il padiglione zero, la summa o la premessa di quel che
dovrebbe essere l’Expo. Non c’è molta
coda, il Decumano deve ancora venire e noi abbiamo fretta di arrivarci. Non
entriamo. Peccato. Forse abbiamo perduto il vero senso dell’esposizione
universale.
Ma
eccolo là, maestoso, babelico, frastornante, il Decumano con le sue sculture
rosse. Sono le multicolori installazioni en plein air dell’artista ligure
Tomaino raffiguranti giochi, animali, la natura, i bambini. Te li ritrovi lungo
tutto il percorso a farti compagnia, ad alleviare la fatica del tour de force
che si sta iniziando inconsapevolmente. Il primo padiglione che visitiamo è
quello del Regno del Bahrein, piccolo
stato arabo del golfo persico. Modesto, semplice, essenziale, scarno. Mi
interessa osservare alcune varietà vegetali, il modo di coltivazione della vite,
ad alberello gigante più che a pergola, i giuggioli, gli avocadi. Niente di
particolare. Lungo il percorso decidiamo di fare delle scelte. Scartiamo i
padiglioni più affollati, violentati da interminabili file di scolaresche,
dalle elementari alle superiori. Non ho capito che ci fanno le elementari. I ragazzi più grandi, quelli delle medie o
delle superiori, spesso sono irritanti nel
loro comportamento. Vere mandrie di studenti assolutamente
disinteressati e impegnati solo a fare
selfie, incuranti che il loro modo di comportarsi e il loro vociare potesse
dare fastidio. In effetti lo danno, visto che
hanno murriti nelle mani. Non
sanno stare fermi. Dell’Africa il padiglione del Sudan è quello che presenta
meno visitatori. Vi entriamo curiosi. In effetti ci delude. Niente di particolare se non le
solite cianfrusaglie dei mercatini rionali che siamo abituati a vedere. Quello di Cuba è ancora chiuso ma i banconi
dedicati al cacao e ai suoi derivati sono presi d’assalto dai visitatori. I
prezzi sono esageratamente alti. Impossibile visitare i padiglioni di Brasile,
Svizzera, Stati uniti e Germania. Le code sono troppo lunghe. L’Ungheria ci
accoglie con le sue acque, i suoi bagni, le sue terme, i suoi laghi, i suoi
fiumi. Onestamente ci aspettavamo di
più.
foto Luigi Tumbarello |
Tra un padiglione che scartiamo a priori e un altro, ci infiliamo in
quello della Bielorussia. Grande delusione. D’altronde non capiamo la sua
presenza all’Expo. All’ingresso un complessino in costume tipico che suona e
canta canzonette popolari . All’interno solo un bazar di prodotti locali
carissimi. La visita dura poco. Restiamo delusi anche dalla Tailandia e dall’indonesia:
molto modesti,solo proiezioni video di risaie e le classiche coltivazioni a
terrazza. Intanto si avvertono i primi
languorini e la sete si fa sentire. Del Decumano abbiamo percorso alcune centinaia di metri. Ce ne
aspettano ancora mille.
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Continuiamo il nostro tour. A sinistra il padiglione
della Cina. Lunga fila, ma decidiamo di entrare. L’ingresso è una coreografia floreale di crisantemi gialli
di ineguagliabile bellezza. Colpisce l’uso della più avanzata tecnologia. Raffinato, didattico,
aristocraticamente comunisteggiante soprattutto nella proiezione del filmato
inneggiante alla festa della Primavera. Assolutamente da vedere. Intanto il
caldo incomincia a farsi sentire. Entriamo,
dopo una breve fila, in quello della Spagna. Belli i suoni, i colori, la
scenografia. Ci sentiamo a casa. Siamo attratti dagli effetti scenografici
delle pareti tappezzate di piatti candidi.
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Ognuno di essi è una piccola
porzione di schermo, nell’insieme un mosaico di immagini che raccontano la
produzione agricola, il lavoro, le abitudini. È il tema comune di tutta
l’Esposizione. Decidiamo di fermarci nel ristorante spagnolo. Affollatissimo,
lunga file per entrare, per finire stipati in un tavolo come sardine. Ordiniamo
paella e sangrìa. Piatto quantitativamente insufficiente , almeno per le mie
sane abitudini. Il gusto è scialbo, freddo, il riso è ‘nchiummatu,
la sangrìa è una bevanda colorata
insapore, il conto però è da nababbi:
cinquantadue euro per una cuppinata
di riso e un bicchiere di acqua avvinazzata. Aggiungiamo quattro euro per
una bottiglietta di mezzo litro di acqua. Incredibile. Alla faccia della fame
nel mondo.
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Ottimo lo strudel di mele accompagnato
con panna ai mirtilli ( quattro euro la porzione). La frescura è quanto di
meglio si possa desiderare in una giornata assolata. Ne usciamo a malincuore
per visitare il padiglione dell’Iran, assai povero, scarno, con un modestissimo
complessino che suona annoiato musiche tipiche. Ma dove sono finiti gli sfarzi
dell’antica Persia? Eppure il paese
degli ayatollah è uno dei più avanzati del medioriente sul piano dell’industria
e della tecnologia. Interessante il padiglione del Sultanato dell’Oman con il
deserto ricostruito e la produzione dell’acqua dalla dissalazione del mare.
L’alimentazione è tipicamente mediterranea, i metodi di pesca come quelli
nostri di mezzo secolo fa.
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Di fronte ci appare il padiglione del Qatar. Sfarzoso, lussuoso, accogliente, con la
bellezza delle sue fontane da mille e una notte e delle sue hostess. Le ragazze liceali fanno a gara a farsi fotografare con gli
uomini in "kandura", la tunica bianca caratteristica. Si sale dal
piano ammezzato a quello superiore attraverso una scala mobile, lusso che
troviamo solo qui (potenza dei petrodollari).
foto Luigi Tumbarello |
foto Luigi Tumbarello |
Ci avviamo verso
quello della Russia, sormontato da un
enorme baldacchino di specchi che riflettono il largo ingresso. Una folla di ragazzi circonda delle
bellissime ballerine russe scatenate in una danza tipica. Guardiamo lo
spettacolo con gli occhi verso l’enorme
specchio del baldacchino in alto che
riflette ciò che avviene in basso. La fila è ordinata, disciplinata e
scorrevole. L’interno è dominato da un enorme parete raffigurante la tavola
di Mendeleev e ogni elemento associato
ad un alimento.
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È l’elogio agli scienziati che si sono dedicati e continuano a
farlo nel migliorare le tecnologie produttive e soprattutto e lanella ricerca
della biodiversità. Tutto all’insegna del super, supertecnologico,
superiflettente, superdidattico. Giganteschi monitor informano che la terra
della grande e santa madre Russia
possiede il lago più profondo della terra, quello più grande, il fiume più
lungo e per finire, il 26% delle risorse idriche mondiali di acqua dolce. Un
avvertimento? Un messaggio per dire che
le sanzioni fanno un baffo a Putin? Un enorme e
psichedelico bancone da pub che dispensa gratuitamente bibite
caratteristiche era assaltato dai
giovani.
Troppa folla di ragazzi al banco. Un segno dei tempi. Altro che interesse didattico da parte loro.
Viva la vodka, che per fortuna non viene dispensata. Vietato comprare souvenir per noi poveri
visitatori. Tutto all’insegna del costoso. D’altronde chi può permettersi oggi
di spendere a Milano se non i paperoni russi, gli sceicchi arabi e i mandarini
cinesi? Usciamo soddisfatti non dopo averne ammirato la struttura
avveniristica, per certi versi ardita, del padiglione a forma di una moderna arca con le pareti esterne in
tema con quello che è lo spirito dell’expo. Ci avviamo, siamo a pomeriggio
inoltrato, verso il padiglione Italia. Incastonato tra quello svizzero e quello
della Frau Merkel , si presenta imponente. Una struttura di acciaio avvolta da
un enorme candido ricamo, gioiello
architettonico e di tecnologie ingegneristiche
avanzatissime. Quello della Germania non è da meno per l’arditezza costruttiva.
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In fondo al viale si erge imponente l’albero della vita e il giochi d’acqua
della grande vasca. Ci affascina e subito ci troviamo in coda ad una
lunghissima fila. Un serpente umano disciplinato e paziente che dall’esterno si snoda verso l’interno per
due rampe di scale di acciaio. Centinaia e centinaia di teste e di corpi verticali
che si muovono lentamente. Siamo fortunati. Ci dicono che bisognerà attendere
un’oretta per entrare. Fortunati perché il martedì è il più anonimo dei giorni
della settimana. Immagino cosa succederà il sabato, la domenica o durante il prossimo ponte del 2 giugno.
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Il
serpente umano si snoda dall’esterno verso l’interno segmentato, fanno entrare
gruppi di trenta intervallati ogni 15 minuti. Intervalli di tempo di attesa lungo le rampe di acciaio che
conducono ai piani superiori. Nessuna scala mobile, significa che non abbiamo i
petrodollari. Arrivati alla rampa del
primo piano solo allora mi rendo conto della quantità di persone che
sono in fila all’interno del padiglione Italia, moltissimi stranieri. Se la
sommiamo a quella che sta fuori si ha la rappresentazione abbastanza approssimata
per difetto di quanti siano i visitatori quel pomeriggio. Uno sguardo più
attento, verso il basso, rivela un qualcosa che non ti aspettavi. Nessuno al
piano terra si sofferma a guardare la bellissima statua marmorea di Hora
proveniente dagli Uffizi. All’interno del padiglione altre opere d’arte
vengono ignorate, o almeno, per esse solo sguardi fugaci. La Vucciria di Guttuso ad esempio. Sono
centinaia le opere d’arte provenienti da
tutto il mondo esposte nei vari spazi dell’Expo, gran parte di esse saranno
ignorate dai visitatori medi, categoria alla quale mi riconosco di appartenere.
Non si viene all’expo per ammirarle, nell’immaginario collettivo esse fanno
parte di un altro circuito, di conseguenza vengono ignorate dalla massa, che è
poi quella che conta e che fa
statistica.
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La curiosità viene soddisfatta dalla creatività, dall’originalità,
dalle forme curvilinee o geometriche impossibili, dai materiali usati e
progettati appositamente per i vari padiglioni. Più che il cibo attrae
l’estetica, e con essa gli effetti speciali, il gioco di luci, i cromatismi, le
proiezioni caleidoscopiche delle immagini, come avviene nella sala degli
specchi. La novità è rappresentata dagli avatar, l’avevo incontrato in quello
del Qatar. Manichini che attraverso fasci
luminosi provenienti da proiettori computerizzati
danno loro un senso di animazione.
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Sono
gli avatar a rappresentare le varie categorie produttive del nostro
Paese. Tutto all’insegna della retorica
presentata come potenza: del fare, della bellezza, del limite e del futuro. I
temi sono comuni: la salvaguardia dell’ambiente dal disastro ecologico, la
difesa del territorio, il dissesto idrogeologico, l’inquinamento. Priorità di
tutti i paesi partecipanti è, almeno a parole e nei messaggi promozionali, il
miglioramento della qualità della vita. Ambiente e cibo, un connubio didattico
che crea consenso. Una piccola annotazione alla fine della visita. Mi ha
lasciato perplesso, nello spazio dedicato alla produzione di eccellenza delle
regioni d’Italia dovere tristemente osservare che la mia regione, la Sicilia,
viene rappresentata solo per la
produzione di fichidindia e fichi.
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Godiamo di scarsa considerazione, in questo modo il messaggio
promozionale appare devastante sul piano dell’immagine. Non bastava la pessima
figura fatta con il padiglione Sicilia chiuso perché inagibile.
Usciamo
dal padiglione Italia dopo un paio d’ore, stanchi, indolenziti, ci sentiamo
esausti. Si decide di rientrare a Milano essendo le energie esaurite. Mancano
ancora tanti padiglioni da visitare, quello del Vaticano, il Messico oltre a quelli inizialmente citati. Ma
tutto non si può girare in un giorno né
in due. Non mancano, lungo il percorso del Decumano, cortei di protesta o
quantomeno di sensibilizzazione sulla questione del cibo. Tutto avviene in modo ordinato, circoscritto,
discreto, quasi ironico. Fa parte quasi della coreografia di questa grandiosa
messa in scena espositiva.
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Ne è valsa la pena? Sì, vale la pena, non fosse altro che per
questo secolo non vi sarà in Italia un’altra esposizione universale. L’attimo
deve essere raccolto quanto si può. Possiamo sempre dire di essere stati
testimoni di qualcosa che inciderà nei prossimi anni sul cambiamento del modo
di percepire la vita. E sarà una rivoluzione. Prepariamoci.
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