foto di Francesca Rizzo |
Si è tenuta, in un Teatro Garibaldi
gremito, la presentazione della ricerca sulla”Casbah di Mazara - Etnografia di
uno spazio della Immigrazione” organizzata dall’Istituto Euroarabo in
collaborazione con l’Associazione Alchimie.
La relazione è il frutto di una
sintesi esauriente della propria tesi di laurea di Francesca Rizzo, condotta
non senza difficoltà all’interno della casbah di Mazara, un microcosmo ancora
poco conosciuto agli stessi mazaresi e che apre uno squarcio nella comprensione
di uno spazio sul quale sono stati scritti centinaia di articoli e costruite
metafore di integrazione più di fantasia che di realtà.
Con rilevamenti statistici ufficiali
cade la nomea di Mazara “la più musulmana d’Italia”; il fenomeno immigratorio
si è esaurito da qualche decennio da quando l’enclave magrebina ha dato vita
anch’essa ad una emigrazione da quella che appariva, negli anni sessanti, la
loro terra promessa. Mazara da città di immigrazione è diventata città di
passaggio; sono centinaia le famiglie tunisine che, a causa della crisi
economica che ha investito il settore della pesca, hanno deciso di emigrare in
Francia o Germania o di ritornare al paese di origine.
Dei cinquemila e oltre immigrati
degli anni settanta ne sono rimasti qualche migliaio, tra questi una
consistente presenza di rom fuggiti dalle guerre delle regioni slave.
Troppo poco per parlare di una
città multiculturale, multietnica e multi religiosa come vuole farla apparire una
certa retorica politica. Ancor più, come rivela con chiarezza la relatrice, che
quelle centinaia di immigrati hanno preferito una autoemarginazione
rifugiandosi in compartimenti stagni in cui appare complessa ogni forma di
comunicazione e contaminazione con quella che loro chiamano Europa, ovvero la
città fuori dall’intreccio di vicoli e cortili della casbah.
Ma se la casbah rappresenta nei
paesi di provenienza, il cuore pulsante della vita della comunità, con le sue
attività caratteristiche, le sue relazioni, la sua creatività, il suo
commercio, come fa notare l’architetto Gianni di Matteo durante il suo
intervento, quella mazarese è uno spazio morto, triste, solitario, vuoto,
desolato, vissuto da ombre , inanimato, nonostante i vari interventi di
recupero che sono stati fatti senza alcuna finalità progettuale.
Il peggio del retaggio
culturale sopravvive all’interno di questo mondo solitario, le donne chiuse in
casa e senza alcun contatto con il mondo esterno, gli uomini a giocare a carte e a
fumare il narghilè nei tanti circoli tunisini ai quali l’accesso alle donne è tassativamente
vietato.
La compartimentazione della
casbah ha fatto sì che diventasse luogo di illegalità, di spaccio di droga, di
microcriminalità. Dell’enclave magrebina e slava, è quella meno acculturata che
vi vive, per scelta o per necessità, mentre quella più abbiente ha preferito
andare a vivere fuori di quel contesto degradato, inserendosi nel contesto
sociale. Il disagio sociale investe anche le seconde e terze generazioni che in
mancanza di una politica di vera integrazione e di interscambio non vedono
nella città il luogo dove costruire il loro futuro.