di Luigi Tumbarello
Dopo il massacro avvenuto contro Charlie Hebdo e il
contemporaneo assassinio del poliziotto musulmano e alcuni clienti di un grande
magazzino ebreo, si è riaperto il dibattito sul fondamentalismo islamico e il
pericolo che le cellule dormienti dei foreign fighters rappresentano per l’Europa. Il nocciolo della
questione è la rappresentazione di un Islam dalle molteplici sfaccettature, uno
moderato, l’altro fondamentalista e dialogante e infine, il più pericoloso,
quello jihadista che fa del terrorismo il suo strumento di pressione. Non tutti
sembrano accettare questa divisione tra Islam moderato e Islam integralista,
quantomeno in riferimento all’aspetto teologico. «Adesso si parla di Islam moderato e di Islam
Fondamentalista, come se esistessero due Islam. Se così fosse dovrebbero
esistere, due Corani, uno radicale, l’altro moderato», afferma Kaled Fouad
Allam (2006:172). Tesi confermata dallo storico Franco Cardini, secondo il
quale l’Occidente gioca sul significato di fondamentalista e moderato quando
attribuisce l’appartenenza a quest’ultima categoria agli Emirati e altri Stati
arabi che applicano la Sharī’a, solo perché fidati alleati e partner
commerciali.
Tuttavia, mancando l’Islam di una guida gerarchica
universale a livello teologico, non può non tenersi conto della sua
scomposizione in diverse sfaccettature di ordine geo-politico, delle quali
quelle moderate sono le più rilevanti e
le più dialoganti. Quel che viene fuori dai dibattiti sui mass media è, a
giudizio di tutti, che le religioni sono pacifiche, tranne poi scoprire che
qualcuna è più pacifica dell’altra: c’è chi parla di tolleranza, chi di
fanatismo religioso, chi addirittura di religioni democratiche, omettendo di
dire che religione e democrazia sono un ossimoro così come inconciliabili sono
tra loro le tre grandi religioni monoteiste, almeno sul piano teologico, ed è
quello che più conta. La lapidazione, la scomunica, la fatwa, cosa sono se non
un modo di affermare la propria e unica
verità, la propria e unica supremazia,
la propria e unica legge?
Dopo la mattanza di Charlie Hebdo, i media ci hanno
fatto scoprire, con tanto di enfasi di natura politica, che siamo tutti
francesi, così come siamo stati tutti americani, spagnoli, danesi, inglesi,
norvegesi; nessuno, però, ha mai gridato di essere nigeriano, kossoviano,
ceceno, cingalese, pakistano dinanzi ai massacri di natura etnica-religiosa.
Qualche riflessione i mass media forse
la dovrebbero fare, soprattutto con quella prima fila di personaggi politici
che ha sfilato solidale la domenica successiva la strage. La stessa riflessione
vale anche per tutte le comunità musulmane, in Europa in particolare, perché è
dal loro interno che provengono anche i
neri tagliatori di gole. Troppi, inaccettabilmente troppi sono i casi dei foreign
fighters neoconvertiti o compiacevoli di un certo Islam. E il silenzio, il
non prendere posizione chiara, pubblica, di condanna, a tutti i livelli, alla
luce di ciò che sta avvenendo nella sponda sud del Mediterraneo, con le minacce
non più celate di una guerra santa che sarebbe follia sottovalutare, potrebbe
ingenerare ancor più atteggiamenti di fobia; nei confronti dei musulmani o
dello straniero non fa differenza
Paradossalmente alla fine, si è d’accordo che non
esistono religioni violente; tutte le religioni sono pacifiche è il leit motiv
dei signori del piccolo schermo o della cultura tradizional-progressista.
Eppure nel nome di Dio sono stati compiuti i più grandi crimini, o eccidi se si
vuole essere politically correct. Nulla dice il martirio come atto
religioso di guerra? E non c’è forse il sacrificio alle radici rituali di tutte
le religioni? La verità è che da una parte la storia è lastricata di sangue in
nome di una religione che scende in guerra in nome di un Dio che spesso, sempre
più spesso, scende in politica. Anche se Dio non ha alcuna voglia di scendere
in politica, ma deve pur sopportare che le religioni lo coinvolgano. Dall’altra
parte, Charlie Hebdo ci fa capire che siamo in presenza di un vero scontro tra
la civiltà del diritto di espressione e
quella della sua negazione.
Gli attentati alle metropolitane di Londra, alle
stazioni ferroviarie di Madrid, alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo,
l’assassinio e lo sgozzamento di Theo Van Gogh, autore del cortometraggio Submission, le manifestazioni di
protesta del mondo musulmano contro il giornale Politiken, reo di aver
pubblicato delle vignette irriguardose contro il Profeta, il recente attentato
a Copenaghen proprio nella sede dove si svolgeva un dibattito sull’Islam e la libertà di parola, la fatwa
dell’ayatollah Ruhollah Khomeini che annunciò alla radio la condanna a morte
dello scrittore di origine indiana Salman Rushdie, colpevole di avere scritto I
versetti satanici: tutto questo come bisogna interpretarlo? Come una guerra
di civiltà contro la blasfemìa e la licenziosità dei costumi o semplicemente come atti di terrorismo, nel caso della Spagna e di
Londra? E come non considerare il terrorismo come una vera strategia di guerra?
«Il ricorso all’arma del terrorismo è, in generale, un modo di fare la guerra,
attraverso delle azioni contro i nemici disarmati, i civili su un autobus, in
un caffè o in un supermarket. Atti che vengono classificati come terroristici
perché gettano panico e generano insicurezza tra la gente comune. Se il gesto è
giustificato da motivi religiosi, si è in presenza di un atto religioso di
guerra» (Pace 2006:123).
Ogni occasione è buona per attizzare il fuoco da
parte di un certo estremismo, sia essa una vignetta, un documentario o una gara
di atletica leggera oppure, come avvenuto alcuni giorni fa, in uno stand
italiano a Dubai, alle inconsapevoli hostess colpevoli di farsi fotografare in
t-shirt e caste gonne. Anche lo sport non fa eccezione. Il caso di Hassiba
Boulmerka, campionessa algerina di mezzofondo, minacciata perché «spogliandosi
davanti a tutti viola l’onore comunitario e propone un modello di emancipazione
femminile assolutamente riprovevole»(Guolo 2014), va al di là del sentimento
religioso. Rappresenta una guerra portata avanti in modo radicale e violento da
un certo Islam, non importa se Sunnita o Sciita, contro il diverso e contro chi
la pensa diversamente ed esercita il proprio diritto di espressione senza
ipocrisie e senza limiti.
Ma ci deve essere un limite al diritto di
espressione, soprattutto nella satira? Fino a che punto può spingersi la
satira? È doveroso pretendere una autolimitazione al proprio diritto di
espressione? Il problema è stato posto
in Italia e in altri Paesi, ma le risposte sono state e rimangono discordanti
se non ambigue. Se Dio fa politica, nel senso che la religione interviene
pesantemente sulla politica, allora è consequenziale che se ne occupi, prima o
poi, anche la satira, «la cui essenza rimane l’obiettivo di castigare ridendo mores, irridendo anche
la religione» (Martelli 2008:176). Satira che è stata condannata prima dal papa
Giovanni Paolo II e poi da Benedetto XVI, secondo l’assunto: scherza con i fanti ma non con i santi. Sono
celebri le battute di Crozza su Benedetto XVI, di Fiorello sul suo segretario
padre Georg Genswein e della Littizzetto sul cardinale Ruini. Gag innocenti, rispetto a quelle
pubblicate da Charlie Hebdo, ma che sono
scomparse dalla TV, a seguito delle le
proteste degli ambienti cattolici conservatori. Concetto oggi
esplicitato in modo abbastanza eclatante da papa Francesco con quel «darò un
pugno a chi insulta mia madre» e
condiviso da una moltitudine di vescovi.
Secondo questa linea di pensiero, la satira non può
estendersi a tutto, compresa la Chiesa cattolica e il suo capo, perché certi
valori, compresi quelli della Chiesa
papale sono intoccabili, sacri e assoluti. L’Islam integralista si trova su
questi temi in assoluta assonanza con i vertici del Cattolicesimo. Da una
parte, la politica si teologizza, la Chiesa si fa Stato e lo Stato si fa
Chiesa. Si pensi ai temi sulla bioetica e famiglia in Italia o del clero
governante in nome di Dio (Iran). Dall’altra si è in presenza di Stati fortemente
influenzati e legittimati politicamente dalla religione (Arabia Saudita,
Emirati, Qathar), fino ad arrivare a manifestare una avversione contro tutto
ciò che viene percepito decadente, lascivo, addirittura profano. Contro tutto
ciò si contrappone la difesa della propria identità e delle conquiste di
diritti che solo una società e una cultura laica possono tutelare, così come
preteso dalla Francia. A qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Una libertà
totale di espressione che proprio nella sua assolutezza scatena nell’altro il
diritto assoluto di tutelare la propria identità fino alle estreme conseguenze.
Identità che nella maggioranza dei musulmani, ma non sono i soli, si riconduce
in forma quasi esclusiva alla appartenenza religiosa o etnica, mentre nelle
democrazie liberali alla propria storia.
Non è l’Islam il nemico da temere, quanto ciò che si
vuole che esso sia, ovvero il volerlo identificare con la bandiera nera
dell’Isis, con il fondamentalismo e la Sharī’a, la legge coranica espressione
della volontà divina che regolerebbe l’ordinamento della società umana secondo
l’assunto “Dio ha stabilito così”; da qui la disuguaglianza tra uomo e donna,
tra marito e moglie, tra musulmano e non musulmano. Inoltre l’immaginarlo
totalmente inclusivo, essere religione,
società, Stato costituisce un deterrente per ogni forma di dialogo, a meno
che questo principio non venga messo in discussione nello stesso Islam. «Il
fondamentalismo che genera pratiche di intolleranza è incompatibile con lo
Stato di diritto. Questa intolleranza si fonda su interpretazioni del mondo,
religiose o storico-filosofiche che attribuiscono esclusività a una forma di
vita privilegiata. Queste concezioni non si accorgono che la loro pretesa è
fallibile» (Habermas 2008: 92)
È per tale motivo che un numero non trascurabile di
musulmani hanno difficoltà ad adattarsi, in Occidente, alle leggi civili di
questo Paese ritenendole estranee alla loro religione e alla loro identità. È
il caso delle banlieues francesi in cui molti giovani musulmani, seppur
scolarizzati, vivono il disagio di una discriminazione e di una emarginazione
che ritengono insostenibile; sradicati dai Paesi di origine dei genitori ma non
del tutto integrati, hanno perduto il senso di appartenenza. Le zone intorno
alla capitale francese sono attualmente caratterizzate per il profondo divario
socio-culturale che le separa dal resto della città, da una povertà marcata e
dalla criminalità diffusa; aree queste sulle quali lo Stato dà l’impressione di
avere perso la sovranità. «Il mondo occidentale è stranamente ostile, gli
occidentali non si fidano degli altri e da questi ultimi questo rifiuto è
percepito come segno di arroganza e di disprezzo. Per gli occidentali la
diffidenza è un modo di proteggersi dagli stranieri le cui intenzioni appaiono
esternamente indecifrabili. Si costruisce una barriera tra sè e gli altri
ritenuti aggressivi o quantomeno ostili. Una presa di distanza soprattutto nei
grandi centri urbani dove tutti sono quotidianamente esposti a una moltitudine
di persone che appartengono a culture differenti. Tutto ciò viene interpretato
dai musulmani come un ulteriore dimostrazione di disprezzo. Non solo non
vengono accolti come si sperava, ma vengono messi in disparte, non si
socializza in nessun modo con loro, dato che l’Islam fa paura e la diffidenza
delle persone aumenta proporzionalmente ai crimini attribuiti all’islamismo dai
media occidentali» (Khosrokhavar 2003: 215).
Anche dalle nostre parti le cose non vanno meglio. È
all’interno di questo disagio che il radicalismo attinge linfa, trova
copertura, consente allo jihadismo di arruolare adepti tra le nuove generazioni
musulmane dei Paesi occidentali, soprattutto nel Regno Unito, in Olanda e
Francia. «Con il suo dogmatismo, le sue risposte nette all’indeterminatezza
della vita, il suo richiamo alla dimensione comunitaria, l’Islam radicale offre
straordinarie certezze e, sia pure distorte, risposte di senso. Quelle che nel
tempo della fine delle grandi ideologie, nessun altro sistema culturale è più
in grado di offrire. In discussione, per questi membri della generazione del
rifiuto e del rancore, non vi è solo una politica che, a loro dire,
criminalizza sempre e comunque l’Islam, ma anche un sistema di valori»(Guolo
2007: 90). Sono questi ultimi Paesi ad avere preso consapevolezza che le loro
politiche sull’integrazione sono pienamente fallite.
Controversa è la questione del fallimento del
modello di integrazione assimilazionista,
che ha finora rappresentato uno dei valori cardini della patria
dell’illuminismo, fondato sul principio di un’eguaglianza di fatto, a patto che
si mantengano intatte la laicità dello Stato e l’egemonia dei valori
repubblicani. In realtà il senso di discriminazione viene percepito dai
musulmani in parte rispetto al sistema scolastico, ma soprattutto nel mercato
del lavoro, oggi in piena crisi economica.
I diversi modelli di integrazione adottati nei vari Paesi europei hanno
di fatto rivelato il fallimento del multiculturalismo,
soprattutto quello inglese e olandese insieme a quello assimilazionista
francese. In Olanda, l’idea che fosse sufficiente concedere la
libertà a tutti gli immigrati, qualunque fosse la loro etnia e la loro
religionie, in nome del relativismo culturale, si è rivelata nient’altro che
un’utopia. In Germania il problema dell’immigrazione è stato sollevato in modo
sconcertante e apocalittico dall’analisi dei dati del tasso di natalità della
popolazione musulmana, di gran lunga più alto di quello tedesco, che porterebbe
addirittura ad un declino irreversibile della cultura e della identità tedesca.
Ci si interroga inoltre, non solo in questo Paese,
se l’Islam sia capace di adattarsi alle istituzioni democratiche, se sia parte
della storia e delle culture tedesche o europee. «Per gli islamisti la
democrazia, espressione della volontà popolare, è la strada per il potere, ma è
una strada a senso unico, che non ammette ritorno, che non ammette il rifiuto
della sovranità di Dio esercitata attraverso i rappresentanti da Lui scelti»
(Lewis 2011:101). Su questo punto non è chiaro nel dibattito culturale se il
discorso sulle identità nazionali abbia ancora un senso e, se sì, come
affrontare e gestire l’enorme flusso di immigrazione che si dirige verso
l’Europa e che appare inarrestabile. Ma disarmante è l’incapacità della politica
di definire un progetto comunitario, europeo, sul piano dell’accoglienza, della
formazione, delle relazioni, con i milioni di immigrati che si dirigono in
Occidente, in gran parte di religione musulmana. Problema che né il
multiculturalismo né il nazionalismo sono in grado di risolvere, fermo restando
che la società occidentale è destinata a diventare sempre più multietnica e
multiculturale, e costretta comunque a difendere i suoi valori di democrazia e
libertà, propri di uno Stato di diritto.
Tratto da Dialoghi Mediterranei
1 commento:
Molto interessante, con contributi di vero spessore. Eccetto forse quello di Allam, dimenticabile esperto, già foraggiato dal comune di Mazara, che di recente ha dichiarato che l'ISIS vorrebbe riportare il mondo al tempo degli Ottomani. Magari! L'Impero Ottomano crollò solo a seguito della sconfitta subita nella 1^ Guerra Mondiale, ed era caratterizzato da tolleranza religiosa e da un certo spessore culturale. Quanto a democrazia, non è che gli altri 'Imperi centrali' con cui era alleato ( Austro-Ungarico e Reich Germanico ) ne brillassero molto di più. L'ISIS vuole riportare le relazioni umane ad una barbarie nemmeno medio-evale, a 'modelli' di vita tribale tipici di tribù del deserto di 1500 anni fa. Per questo non mi stancherò mai di contestare chiunque, oggi, accenna a 'Scontro di Civiltà'. Le civiltà non si scontrano, altrimenti non sarebbero civiltà. Se c'è uno scontro, vuol dire che, almeno da una parte, non c'è civiltà. Valenziano.
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