Telamone del portale del Collegio dei gesuiti. |
di
Nino Giaramidaro *
Spuntava
in planata sulle balate di via XX settembre. La curva larga lo sospingeva sul
deserto della piazza Plebiscito, nel silenzio solcato da due alberelli,
testimoni di solitudine, che separavano il pizzo di sant’Egidio e la
interminabile facciata dell’ex Collegio dei Gesuiti, col portone vecchio e
spitturato, vigilato da grandi telamoni. Uno di essi, col volto sofferto e
mangiaticcio dal salso era Assalonne, impigliato dai bei capelli biondi e
mortali nella pietra dalla quale continua ancora a tentare di liberarsi.
Il
professore Pellegrino, proprietario dei teoremi e del mistero delle rette
parallele, virava davanti alla chiesa di sant’Ignazio – col tondo più alto
vuoto e attraversato da un ramo spurio che finiva in una forca – e lì abbassava
un poco il braccio destro che lo aveva soccorso durante l’aerea manovra.
Davanti ai telamoni strambava deciso e sollevandosi come preso da una ieratica
calamita, si faceva inghiottire dal portone semichiuso della scuola media
statale.Una testimonianza come questa la possono elargire coloro i quali, dopo
avere attraversato la via Porta Palermo, lasciandosi a destra il chiasso
bagnato della piazza Chinea e smaltita tra il languente odore di etere la via
Ospedale, si affidavano alla discesa di via Santa Teresa per prendere
quell’abbrivio decisivo nella quotidiana scommessa con l’orologio della preside
La Marca.
Chiesa di S.Ignazio, interno foto Giaramidaro) |
Pensavo
a questa mia estrema giovinezza girando in tondo dentro la chiesa gesuita per
aspettare la presentazione di un libro sul mare. Colonne teologiche ancora
dritte, rovine di tufi una volta consacrati, cielo di un celeste buono,
passaggio per il Collegio diventato segreto, affreschi cancellati, angioletti
orribilmente mutili, colori estinti dal tempo mondano. E il silenzio templare
che resisteva nonostante il vocio risucchiato nell’alto, dove vanno a finire
tutte le parole dette. Un ovale forse monito della rotazione e rivoluzione, la
nostra condanna alla lunga illusione del tempo, indifferente anche alla segreta
fatica degli orologi. Rimane, lì dentro, lieve e intensa, una liturgia di
bellezza che si rivela improvvisa e pungente per poi riassopirsi in quel corpo
senza agonia da quasi cent’anni.
Sulle
concave pareti addentate dalle piccozze, negli ovali degli affreschi caduti, il
lieve mutare delle ombre e dei riverberi sembra suscitare l’alternarsi di
figure antiche. Fantasmi concitati e fugaci di vite dimenticate e avvenimenti
senza più memoria. Forse Virgilio Titone, lo storico e scrittore di
Castelvetrano, fu sedotto dalle visioni dentro questa chiesa prima di scrivere
della sua “storia circolare” con le “espulsioni” e le “contrazioni”. Nel 1920
il futuro storico era studente di ginnasio nell’ex Collegio dei Gesuiti, e il
passaggio dal monastero alla chiesa non era ancora ostruito. Titone evoca la
Mazara di quasi un secolo fa nel suo libro di racconti Storie della vecchia
Sicilia (Arnaldo Mondadori Editore 1971). Per licenza narrativa – o per
memoria debole – scrive che il collegio «occupava quasi tutto un lato della
piazza Mokarta, una delle più belle, ma anche, per i vecchi abbandonati edifici
che d’ogni lato la circondano e il colore delle loro pietre, delle più
malinconiche piazze che mi sia accaduto di vedere». È la descrizione
dell’allora Piano del Collegio, già di sant’Egidio e oggi piazza del
Plebiscito, dove resiste il complesso dei Gesuiti, con la chiesa di
sant’Ignazio di fronte al Satiro custodito sotto le cupole di sant’Egidio.
Tutto sotto vigilanza rotonda e marmorea di Ignazio di Loyola, lo sguardo
socchiuso verso la luce e l’aureola arrugginita, che indica il libro delle
leggi.
Il busto di S. Ignazio sull’omonima Chiesa (foto Giaramidaro) |
Il
giovane studente abitava in casa di una compaesana, donna Ciccina Forte. Nel «quartiere
antico, un intrico di viuzze e cortili, rimasti quasi intatti dal tempo della
città araba». Quasi al centro, cioè nei dintorni dell’antico serraglio, il
fondaco dove si fermava la gente di mare appena sbarcata, dopo aver salito la
“scala del serraglio” gremita di poveri, invalidi, malati che speravano nel
buon incontro. Pagine che fra nomi e luoghi, mi fanno ripescare ricordi postumi
all’autore di una trentina d’anni. La piazza Immacolata, meglio nota come il
Purgatorio, con la chiesa di santa Lucia e sul frontone un’anima e corpo tra le
fiamme purgatorie ma, soprattutto, con la camera mortuaria dell’ospedale che,
nei giorni di lutto povero, accendeva l’irresistibile curiosità di adolescenti
mai stati a tu per tu con la morte.
Nella
via Giacomo Sciacca che conduceva alla “scala dei poverelli” e alla chiesa di
san Nicola, c’erano i falegnami Bertuglia, omonimi della seconda affittacamere
di Titone e dei titolari di una taverna con cucina all’angolo dove la via
Marina si allarga in uno spazio di rispetto alle absidi di san Nicolò regale.
Forse gli stessi Bertuglia che affittavano a Titone la camera con finestra sul
mare, luogo di ascolto delle dicerie marinare, suggestioni e pensieri
dell’aspirante liceale. Via Marina, una strada balatata e sempre bagnata
dall’acqua di rianimazione sopra le fosforescenti attarine, sgombri, sarde e
sardone, spicari e lappani, ritunni, gronghi e murene infidi con il loro
aggrovigliarsi serpentesco, sanguinanti pezzi di cufuruna, alias tartaruga,
allora stimolo alla voracità ittica, e le peccatrici romboidi, i cagnulicchi
scuoiati, mazzame per la ghiotta, le letterarie ope (vopi) e qualche pesce di
serie A.
Via Marina, a dx: S. Nicolò Reale (foto Giaramidaro) |
C’erano
le bancarelle dei pescivendoli dirimpetto a san Nicolicchia, poco prima che la
strada si incurvasse per sfociare sul molo Caito, presidiata all’angolo
dall’antro nero del Burgio del carbone, mentre andando dritto, sulla via
sant’Antonio, il Burgio delle patate vigilava, dentro un superportone, una
montagna di tuberi che lambiva il tetto. Anch’io, credo, sono entrato nel tempo
circolare di Jorge Luis Borges: ripeto ciò che ho fatto innumerevoli/ volte
nell’assegnato mio cammino./ Io non posso eseguire un gesto nuovo/ tesso e
ritesso la scontata favola»; «Ricordo i gelsomini e la cisterna, cose della
nostalgia. / Ricordo i lampioni a gas e l’uomo con la pertica / Ricordo il
bastone animato. / Ricordo ciò che vidi e ciò che mi narrarono i genitori. /
Ricordo la Drogheria della Figura in via Tucumàn. Sì, Pippineddu con la scala
a spalla, carico di lampadine, piccolo e
leggero sul suo itinerario di lampioni accecati. Don Peppino La Verde, ironico
e alacre che rimetteva a nuovo scarpe e scarpette mortificate. Il magazzino di
Miliuni, in via del Turco, quadrato, un po’ rettangolare – la memoria non ha
simpatia per la geometria e gli altri canoni del reale – le pareti assediate da
bianchi scatoli di scarpe, fra i quali c’era pure quello delle mie polacchette
che mi facevano dolere i talloni per giorni e giorni. Gli alterchi insanabili
nel salone di Pino Giammarinaro fra coppiani e bartaliani. Ricordo Francolino all’ala,
Ballarin terzino sinistro e quel portiere scassato di Barracchedda. Don Carlo
Adamo, in via Garibaldi: cinque Nazionali, una Esportazione e due mentine che
facevano cinquanta lire esatte. La vecchietta alla cassa nel grande bar
pasticceria “Pastizzuni”, e le folate alla vaniglia che si sprigionavano nella
via Carlo Agostino, sede dei grandi artefici dolciari. L’attonito silenzio
stradale alla notizia della morte estera di Vittorio Emanuele III. Lu zu Cicciu
Scoccirifora con la sua sfosella ambulante di pesce povero. E Morrione, con la
fiddeccula che debordava dal carniere, asciutto e dritto nel suo orgoglio per
la mira, che tornava a sole alto dai Gorghi Tondi o dal Preola, dove un giorno
è scomparso.
Nell’effimero
disegnarsi di figure sugli antichi muri della chiesa, come gli atomi turbinanti
di Democrito che si congiungevano e disgregavano senza principio né fine,
sembra di identificare facce, corporature, gesti già visti nella realtà passata
che ora il ricordo deforma, slarga e restringe. Suggestioni provvisorie a
cavallo della fantasia che il reclinare breve del capo cancella, come tutte le
cose che si scrivono in cielo. A ritroso sull’itinerario scolastico. Nella via
Santa Teresa, salendo dal Collegio e prima di giungere alla chiesa, c’è un vicolo
senza nome. Vi abitava la maestra Di Marco che insegnò a leggere, scrivere e
far di conto a una ventina di generazioni. Aveva la bacchetta nella mano
grassottella e rapida. E veloce e vibrante si abbatteva sulla mano con la quale
scrivevo: quella del peccato, del diavolo. Mio padre la chiamava ancora manu
scherda, la izquierda, sinistra degli spagnoli. Imparai a scrivere con la
destra, sin quasi alla bella grafia nell’apposito quaderno. A lei si dovrebbe
regalare quel vicolo; un risarcimento doveroso alle bacchettate didattiche e
all’impegno materno che metteva nel consegnare alla terza classe bambini che
avevano imparato e la lasciavano con lacrimato rimpianto.
Via Pilazza (foto Giaramidaro) |
La
Pilazza, una casbah colorata che sprigionava vapori di pentole con odore di
pesce, pareti rosa, verdi, rosso greco, e gettava in quei vicoli a misura
d’uomo pescatori antichissimi, con i volti
bulinati da rughe di profonda salsedine, che ancora, come per vizio in
quei loro giorni consacrati all’inutile, cercavano nel vicolo del Vento di trovare
la direzione dello spirare. A piedi scalzi e con i pantaloni di ‘ntoccu
arrotolati sino al polpaccio, coloro i quali avevano ancora in corso la
‘nciuria combattevano con reti tormentate da squarci, remi e scalmi che non ne
potevano più, nasse con giunchi esausti, conzi con il sughero straziato dagli
ami, rizzagghi variopinti dall’avugghia sottile. I bambini giocavano seminudi e
martoriati dalle mosche, i capelli rapati oppure all’umberta contro
l’impidocchiamento, e le madri che vociavano i loro nomi ad intervalli per
sentirne svogliate risposte. Ragazzine saltellanti su un piede solo dentro
invisibili disegni nella polvere, ragazzini accapigliati, all’impiedi o per
terra, sollevando trombe di polveraccio, urlanti e leggeri nel loro esperto
rincorrersi incurante del tempo, dei passanti e dei richiami materni.
Da
via Bambino o da via della Barca, entrare nel quartiere era come varcare una
frontiera: il confine della puzza sotto al naso, della povertà nemmeno da
guardare. Ora nella Pilazza si offrono quadrivani e trivani fra porte e
finestre di azzurro maghrebino, e gli studiosi sostengono vi si parlino almeno
25 lingue, dal cinese, all’ucraino, dal serbo al romeno. Al senegalese e,
soprattutto, quella dell’Islam che fu di spade/ che desolarono il ponente e
l’aurora/ …e la distruzione degli idoli/
e la conversione di tutte le
cose/ in un terribile Dio che sta solo/… nella delicata penombra della cecità/
è un concavo silenzio di cortili/ un ozio del gelsomino… (Borges).
Nel mio ricordo c’è un linguaggio di francese e spagnolo mischiato alle
sopravvivenze di una lingua antica e stanca, con accenti brevi e lunghissimi,
in una cantata scandita dalla metrica marinara. L’olio si comprava, portando la
bottiglietta, a unzi, la pasta, incartata, a rotoli, si misurava a canne e le
persone di statura stentata venivano dette mezzacanna. Per dirla con Borges,
sono nato in un’altra città che pure si chiamava Mazara.
da DialoghiMediterranei,
n.15, settembre 2015
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