C’è
aria distaccata in città e il clima elettorale appena iniziato, seppur in
sordina, non riesce a permeare quella solco che separa la politica dai
cittadini. Le elezioni amministrative arrivano dopo una crisi economica che ha
messo in ginocchio una città irresponsabilmente vissuta al di sopra di ogni
sua possibilità e per decenni in preda a bulimia consumistica sfrenata
indirizzata verso il futile, l’effimero, l’apparire, l’inutile. La crisi mostra
ai mazaresi una società economicamente squilibrata, che privilegiando il
consumo, non bilanciato dalla produzione di ricchezza, l’ha spinta
inevitabilmente all’impoverimento economico, sociale e culturale. Inoltre il
trasferimento forzato delle migliori risorse intellettuali,alla ricerca di
condizioni migliori di lavoro e di aspettativa di vita, ha di fatto trasformato
la città in una collettività senile, priva di quelle fresche energie che potessero
rappresentare un rilancio in termini socio economici e culturali. Il peccato ”del diem
vivere” da parte di quelle che in passato hanno rappresentato le categorie
trainanti della società, la pesca, l’agricoltura e l’artigianato, ha portato
all’incapacità di cogliere i segnali di cambiamento e di trasformazione che la
globalizzazione lanciava sempre più insistentemente.
L’avere
vissuto in un proprio guscio, crogiolandosi del benessere economico del
momento, ha avuto come risultato una catastrofe economica generalizzata ed un
impoverimento che ha colpito tutte le classi sociali a causa di una crisi
economica che seppur partendo da lontano, ineludibilmente avrebbe investito le
economie più precarie e meno attrezzate ad affrontarla.Da questa responsabilità
non può tirarsi indietro la politica, che non ha consentito un ricambio
generazionale e intellettivo e la cui sclerotizzazione l’ha reso incapace di
porsi degli obbiettivi strategici come lo sviluppo socio economico, la
valorizzazione del territorio e delle sue risorse ambientali, culturali,
produttive e soprattutto una strategia che avesse come obbiettivo il
miglioramento della qualità della vita. Una politica che ha lasciato il passo
alla mediocrità e largamente rappresentata intellettualmente e culturalmente da
livelli di assoluta insufficienza.
Eppure
queste strane elezioni amministrative non sembrano dare segnali di resipiscenza
se la politica scende in campo con ben sette pretendenti ad aspirare allo
scranno di primo cittadino ciascuno in compagnia delle proprie centurie,
caterve di candidati a consiglieri comunali, lacchè e palafranieri.
La
fa da padrona la demagogia, le grandi promesse, l’eccessivo uso di iperbole e
di figure retoriche, e ciascun aspirante sindaco ha le proprie soluzioni
mirabolanti, e tutti hanno un solo obbiettivo, fare di questa cittadina
provinciale, priva di un pronto soccorso quanto meno decente, di uffici
periferici che semplificano la vita dei cittadini, di un tribunale, di una
camera del lavoro, di un giudice di pace, di un difensore civico, di scuole al
passo con i tempi, di strutture ricreative, di asili nido, Il Paese dei Balocchi. Una grande
Capitale: Capitale della cultura, Capitale della pesca, Capitale dell’arte,
Capitale del turismo, Capitale dell’accoglienza, Capitale della
multiculturalità, Capitale della pace, Capitale della tolleranza, Capitale
delle maioliche, non bastando più la ceramica, Capitale museale.
C’è
chi promette mirabilie, c’è chi addirittura scomoda lo Stupor Mundi di Federico
II, c’è chi progetta una città a sua immagine, c’è chi si presenta come esempio
di novità nonostante decenni di professione politica, c’è chi immagina di fare di
Mazara la nuova “Utopia” adattata alla sua visione futuristica, c’è chi la
proietta nel mondo di Gaia, c’è chi promette una città “Normale” essendosi
perduto il senso della stessa normalità.
Ognuno
con uno slogan salvifico: Occorre una
svolta, Io ci Credo, Forte perché Libero, Ascoltare per dare Voce, Grande
Capitale del Mediterraneo ( eliminato l’aggettivo piccolo), Mazara riparte da Qui, dove però
l’avverbio di luogo non chiarisce la differenza dall’altro avverbio lì, perché una cosa è partire da qui e altro è partire da lì. Perché l’avverbio lì, se lo osserviamo al microscopio si
presenta come un frattale, e più lo focalizziamo più ci da l’esatta dimensione
del fallimento della politica.
Lì vi
sono le periferie ridotte in discariche a cielo aperto, lì troviamo gli accumuli di amianto che non trovano attenzione da
chi gestisce la cosa pubblica, lì
centinaia di famiglie non sono ancora raggiunte da una rete idrica, lì centinaia di abitazioni non sono
ancora servite da servizi primari, lì
la qualità delle acque utilizzate dalla comunità presentano valori di salubrità
al limite o sopra quelli di rischio, lì
rimangono sepolti da calcinacci migliaia di volumi di quella che una volta era
la straordinaria biblioteca comunale, lì
le vere opere d’arte, come la fontana di
Consagra e i murales dello stadio vengono abbandonati al loro destino, al
degrado e all’incuria tra l’indifferenza generale, lì rimangono in attesa di definizione centinaia di pratiche di
sanatorie che potrebbero offrire un alito di speranza all’edilizia ormai
prostrata.
Ma
nel Paese dei Balocchi dei candidati sindaci non c’è posto per quell’avverbio lì.
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