Eric Lamet (foto L. Tumbarello) |
Non
è di tutti i giorni che una manifestazione culturale, condotta in modo
raffinato, faccia scoprire alla collettività, dopo uno spazio temporale
abbastanza lungo, una storia iniziata nel più tragico dei modi, e che da quella
follia umana possano nascere dei valori e degli insegnamenti che elevano l’uomo
ad una dimensione superiore. Non è facile perdonare, soprattutto quando la
propria vita è stata segnata dalla più grande atrocità che il mondo avesse mai
visto, ancor più, quando, di tutta la propria numerosa parentela, si sono
perdute le tracce nei campi di sterminio nazisti. Tuttavia, può succedere, che,
se analizzato da un punto di vista diverso da quella tragedia, che la Arendt
definì “la banalità del male”, il bene possa avere il sopravvento sul male e il
perdono sull’odio, non rinunciando al ricordo. Sapere perdonare è l’insegnamento
che alla fine l’autore vuole trasmettere ad un pubblico attento, emotivamente
coinvolto. Non è facile perdonare, ci vuole tempo, occorre scavare in
profondità nell’introspezione di se stessi, andare alle proprie radici, sapere raccogliere
da quella banalità del male quanto bene può sgorgare, considerarlo un dono da
portare con se per sempre.
Eric
Lamet, il suo nome di nascita è però Erich Lifschutz, ebreo polacco, infanzia
trascorsa a Vienna, cresciuto in Italia, maturato negli Usa. Apparentemente una storia come tanti altri costretti a provare l’orrore della diversità razziale,
tuttavia al contrario degli altri, considera quell’ingiustizia subita un dono dal
proprio nemico. Quel confino che lo ha relegato, insieme alla madre, a seguito delle
leggi razziali contro gli ebrei, in un paesino sperduto dell’appennino campano,
lontano dalla civiltà, e dove ha la fortuna di incontrarvi un siciliano, di
Mazara del Vallo, che lo plasmerà sul piano degli affetti, della formazione e
soprattutto della crescita, verrà considerato, da Eric, un regalo da preservare
per tutta la vita.
Oggi
Enrico è un giovane ultraottantenne dagli occhi vispi, curiosi, dal sorriso
pronto, bell’uomo, e soprattutto testimone di un passaggio epocale di società e
modi di vivere diversi, una trasformazione antropologica che lo ha sedotto e
forgiato sul piano umano.
Lamet
non racconta, dialoga con i suoi interlocutori, lo storico Rosario Lentini e
Antonino Cusumano dell’Istituto Euroarabo di Mazara. Soprattutto dialoga con il
pubblico. Lo fa in modo affascinante, con linguaggio suadente, lo sguardo
benevolo e commosso. Una grande umanità aleggia nelle sue parole, dense di
amore e pregne della sofferenza che lui e la sua famiglia hanno dovuto subire.
Soprattutto colpisce la serenità con la quale parla di quel momento di vita. Il
suo è un atto di amore verso Pietro Russo, quel mazarese antifascista che conobbe
durante il confino e che divenne il suo secondo padre, verso quello sperduto
paesino che lo ospitò durante la guerra, verso l’America, in cui tuttora vive,
verso i parenti di suo padre, i quali, nonostante le diffidenze iniziali,
accettarono e riempirono di affetto i nuovi strani parenti di altra religione.
Il libro è anche un atto di amore nei confronti di Mazara, città dove Eric
portò l'urna con le ceneri del padre per conservarle nel cimitero cittadino.
Rosario Lentini, Eric Lamet, Antonino Cusumano (foto L.Tumbarello) |
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