L’oblìo, ««l’ingiustizia del
tempo» sono l’ultima scena della tragedia della morte. Sino alla metà della
seconda metà del Novecento giungevano dopo generazioni di memoria, poi il tempo
ha cominciato a ruzzolare, sospingendo nella fretta perfino i cortei funebri.
Che non fanno più compiere l’ultima passeggiata attraverso luoghi testimoni di
una vita, interrompendo il traffico, attività delle botteghe, il ritmo dei
passanti – fermi, cappello in mano e segno di croce quale rispettoso commiato.
Lo scrittore Salvatore Satta –
ultimo grande caso letterario – ha scritto che «in fondo la caratteristica dei
nostri tempi è quella di avere reso le cose senza importanza». E,
nell’introduzione ai Promessi Sposi, Manzoni sostiene che la «historia può
veramente deffinire una guerra illustre contro il tempo, perché togliendogli di
mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già cadavueri, li richiama in vita, li
passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia».
«Non si può annullare l’essere
nati – aggiunge Satta – per questo tutti i piccoli uomini senza fama sono
importanti e devono interessare tutti. Sono esistiti come esistiamo noi». «Ogni
morte di uomo mi diminuisce perché io partecipo dell’umanità», verso della
poesia «Per chi suona la campana» del poeta e religioso John Donne, che ispirò
Hemingway per il suo omonimo romanzo. E Riccardo Chailly, grande direttore di
orchestra e amico ed ex assistente di Abbado, alla morte del maestro ha detto:
«Da oggi l’Italia è più povera».
Lorenzo Inzerillo, autore del
volume di memorie sullla città di Mazara (Una città di polvere e gelsomini,
edito a cura dell’Istituto Euroarabo, 2013, con una densa e affettuosa
introduzione del figlio Giuseppe), ha avuto la cognizione dolorosa
dell’obliterazione, che apre le porte del nulla: uomini e donne inghiottiti
dall’eternità, come se mai fossero nati ed esistiti. E con umanità ha affidato
alla nostra presunzione anche la memoria di essi; o, meglio, di quanti è
riuscito a ricordarne. Una sua piccola e grande battaglia contro la
dimenticanza, la quale altro non è che una mistificazione del tempo, eterno
antagonista della storia, delle vite vissute, dei segni piccoli e pure grandi
lasciati. Un commosso e commovente tentativo di restituirci quello che
Pirandello, insospettabilmente, ha voluto dire scrivendo «Il tempo moriva e lui
restava»: l’amore, pure se «addormentato in un angolo del cuore». Pagine che
tracciano un lungocircuito con le righe di Cesare Pavese «Perché dimentichiamo
i morti? Perché non ci servono più», forse riscattate dalle altre sue righe «Al
mondo non si è mai del tutto soli», che, in un qualche modo – visto che nulla
si crea e nulla si distrugge – erano patrimonio di Inzerillo. C’è un sentire
dell’uomo, disperso nei cieli, che chi si dedica al pensare capta come un
messaggio senza bottiglia, una imperscrutabile comunicazione all’intelletto.
Una rivelazione ingombrante.
Lorenzo Inzerillo, con la sua
scrittura carica di anni, mi spinge a riflettere sulla «’nciuria» detta senza
la gentilezza della «g», suono meno pungente della «c» del gergo più duro,
adatto a scaricare dei contenuti pesanti quel sostantivo che, in lingua, muove
da intenzioni dolose, con la premeditazione di infliggere un vulnus, una croce
al demerito. La ’nciuria per i grandi diventa «detto», «alias», «chiamato»:
Vittorio Emanuele III, detto «Sciaboletta», William Shakespeare, detto «il
Bardo», Guglielmo I d’Orange-Nassau, «il Taciturno», sino ad Alessandro Del
Piero, al quale è stato addirittura affibbiato un già soprannome,
«Pinturicchio», che distingueva Betto (Bernardino) Betti, pittore del ‘400. Per
i «piccoli» colpiti da ’nciuria si dice «’ntisu»: com’è ‘ntisu? Inteso, da
intendere che, secondo il vocabolario Treccani, ha anche il significato di
«rivolgere una facoltà sensoriale o spirituale a un determinato oggetto per
acquistarne o approfondirne la conoscenza, o anche soltanto tendere, cioè
acuire, la capacità ricettiva di tali facoltà». ’Ntisu sta per sforzo di
comprendere, approfondire ciò che nome e cognome non riescono ad esprimere.
Così che, rivelando la ’nciuria di una persona, se ne consegnava una sintesi
del carattere, un’attitudine, un vizio. Uno spot del suo intimo.
Credo con benevolo sorriso,
Lorenzo Inzerillo si sia districato con sensibilità in questo travagliato
ordito da antropologi e abbia fatto scelte precise, raccontando con leggerezza
di uomini e ’nciurie. Ha scritto di «Vasuca», barbiere con salone sulla
«mastranza» (l’irriconoscibile via Garibaldi), fra la bottega di generi
alimentari del «Carabiniere» e quella di Bastiano, alacre calzolaio. Ha taciuto
sul dirimpettaio del barbiere: don Ciccino Genna, vetrina polverosa, zeppa di
rubinetti e occhiali, con una lampadina fioca che rischiarava il suo lavoro
interrotto dall’urgenza frequente del cartoncino «Torno subito» attaccato alla
porta a vetri dell’ingresso. Forse non ha ricordato il soprannome, ma essendo
don Ciccino, uomo dedito alla molteplicità e alla mobilità, probabilmente
sfuggiva alla immobile qualificazione di una ’nciuria.
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