Cartesio


Non c'è nulla interamente in nostro potere,se non i nostri pensieri.
Cartesio

sabato 3 maggio 2014

Per una topografia della memoria

di   Nino Giaramidaro

L’oblìo, ««l’ingiustizia del tempo» sono l’ultima scena della tragedia della morte. Sino alla metà della seconda metà del Novecento giungevano dopo generazioni di memoria, poi il tempo ha cominciato a ruzzolare, sospingendo nella fretta perfino i cortei funebri. Che non fanno più compiere l’ultima passeggiata attraverso luoghi testimoni di una vita, interrompendo il traffico, attività delle botteghe, il ritmo dei passanti – fermi, cappello in mano e segno di croce quale rispettoso commiato.
Lo scrittore Salvatore Satta – ultimo grande caso letterario – ha scritto che «in fondo la caratteristica dei nostri tempi è quella di avere reso le cose senza importanza». E, nell’introduzione ai Promessi Sposi, Manzoni sostiene che la «historia può veramente deffinire una guerra illustre contro il tempo, perché togliendogli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già cadavueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia».
«Non si può annullare l’essere nati – aggiunge Satta – per questo tutti i piccoli uomini senza fama sono importanti e devono interessare tutti. Sono esistiti come esistiamo noi». «Ogni morte di uomo mi diminuisce perché io partecipo dell’umanità», verso della poesia «Per chi suona la campana» del poeta e religioso John Donne, che ispirò Hemingway per il suo omonimo romanzo. E Riccardo Chailly, grande direttore di orchestra e amico ed ex assistente di Abbado, alla morte del maestro ha detto: «Da oggi l’Italia è più povera».
Lorenzo Inzerillo, autore del volume di memorie sullla città di Mazara (Una città di polvere e gelsomini, edito a cura dell’Istituto Euroarabo, 2013, con una densa e affettuosa introduzione del figlio Giuseppe), ha avuto la cognizione dolorosa dell’obliterazione, che apre le porte del nulla: uomini e donne inghiottiti dall’eternità, come se mai fossero nati ed esistiti. E con umanità ha affidato alla nostra presunzione anche la memoria di essi; o, meglio, di quanti è riuscito a ricordarne. Una sua piccola e grande battaglia contro la dimenticanza, la quale altro non è che una mistificazione del tempo, eterno antagonista della storia, delle vite vissute, dei segni piccoli e pure grandi lasciati. Un commosso e commovente tentativo di restituirci quello che Pirandello, insospettabilmente, ha voluto dire scrivendo «Il tempo moriva e lui restava»: l’amore, pure se «addormentato in un angolo del cuore». Pagine che tracciano un lungocircuito con le righe di Cesare Pavese «Perché dimentichiamo i morti? Perché non ci servono più», forse riscattate dalle altre sue righe «Al mondo non si è mai del tutto soli», che, in un qualche modo – visto che nulla si crea e nulla si distrugge – erano patrimonio di Inzerillo. C’è un sentire dell’uomo, disperso nei cieli, che chi si dedica al pensare capta come un messaggio senza bottiglia, una imperscrutabile comunicazione all’intelletto. Una rivelazione ingombrante.
Lorenzo Inzerillo, con la sua scrittura carica di anni, mi spinge a riflettere sulla «’nciuria» detta senza la gentilezza della «g», suono meno pungente della «c» del gergo più duro, adatto a scaricare dei contenuti pesanti quel sostantivo che, in lingua, muove da intenzioni dolose, con la premeditazione di infliggere un vulnus, una croce al demerito. La ’nciuria per i grandi diventa «detto», «alias», «chiamato»: Vittorio Emanuele III, detto «Sciaboletta», William Shakespeare, detto «il Bardo», Guglielmo I d’Orange-Nassau, «il Taciturno», sino ad Alessandro Del Piero, al quale è stato addirittura affibbiato un già soprannome, «Pinturicchio», che distingueva Betto (Bernardino) Betti, pittore del ‘400. Per i «piccoli» colpiti da ’nciuria si dice «’ntisu»: com’è ‘ntisu? Inteso, da intendere che, secondo il vocabolario Treccani, ha anche il significato di «rivolgere una facoltà sensoriale o spirituale a un determinato oggetto per acquistarne o approfondirne la conoscenza, o anche soltanto tendere, cioè acuire, la capacità ricettiva di tali facoltà». ’Ntisu sta per sforzo di comprendere, approfondire ciò che nome e cognome non riescono ad esprimere. Così che, rivelando la ’nciuria di una persona, se ne consegnava una sintesi del carattere, un’attitudine, un vizio. Uno spot del suo intimo.
Credo con benevolo sorriso, Lorenzo Inzerillo si sia districato con sensibilità in questo travagliato ordito da antropologi e abbia fatto scelte precise, raccontando con leggerezza di uomini e ’nciurie. Ha scritto di «Vasuca», barbiere con salone sulla «mastranza» (l’irriconoscibile via Garibaldi), fra la bottega di generi alimentari del «Carabiniere» e quella di Bastiano, alacre calzolaio. Ha taciuto sul dirimpettaio del barbiere: don Ciccino Genna, vetrina polverosa, zeppa di rubinetti e occhiali, con una lampadina fioca che rischiarava il suo lavoro interrotto dall’urgenza frequente del cartoncino «Torno subito» attaccato alla porta a vetri dell’ingresso. Forse non ha ricordato il soprannome, ma essendo don Ciccino, uomo dedito alla molteplicità e alla mobilità, probabilmente sfuggiva alla immobile qualificazione di una ’nciuria.
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