La Contea, il Borgo e i Cavalieri Serventi
di Luigi Tumbarello
C’era una volta una Contea.
Essa era governata da un Principe barbuto,
potente, straricco,stracolmo di proprietà, nobili palazzi e ricchi feudi
sparpagliati nelle diverse contrade di ponente che ricadono sotto la Sua
potestà, e da alcuni Baroni, scaltri, meno danarosi ma non meno potenti; tra
costoro faceva spicco anche una nobile dama, maliarda,tenace e pugnace. Costoro
dominavano l’intera Contea dal Mare ai Monti,da ponente a levante, ed erano
vezzi a circondarsi di cortigiani e coorti di servitori,valletti,palafrenieri e
paggi provenienti dai vari borghi ricadenti sotto la loro giurisdizione.
Tutti
gareggiavano nel mostrare chi fosse più ossequioso, più deferente, più
adulatore, più servile nei confronti dei Padroni. Un viaggiatore errante che
entrava attraverso la porta principale di uno di questi borghi, una volta “
Inclito”, poteva notare sopra l’arcata
di essa una lapide con una scritta:
”Pammilus
instituit liquide prope fluminis undam
Mazariam nomen
Mazarus ipse dedit”.
Tale Borgo, millantando sì illustre progenie, era governato da gente
andante, priva di una salda identità, dominata dal gene della piaggeria e della
trasmutazione, persone dalle cento maschere e dai mille travestimenti,compiacenti
e sensibili alle altolocate lusinghe,alfieri nello spoliare il borgo dai suoi
beni per offrirli alla disponibilità delle maestà. Non erano da meno i
borgatari, sempre festaioli e voraci onnivori dell’effimero, impavidi
demolitori delle belle e nobili vestigia del borgo, rimembranze della sua
antica magnificenza. Costoro si mostravano, per natura, indifferenti scopini
della memoria e provetti sarti nel tagliare i panni addosso al vicino,
considerato unico reo delle proprie disgrazie. Questi indigeni erano anche
proclivi ad arruolarsi sotto le insegne altrui, non facendo capo, il Borgo, a
Signori di nobile casato. L’unico Signorotto di borgata noto per il suo acume
e la sua sagacia nonché per la sua insofferenza alle Signorie costituite, era
stato relegato, in attesa di mettere fine alla sua alterigia, alla potestà di
un piccolo feudo sperduto all’ interno della Contea; al messere, però, per
tenerlo a freno,veniva concesso anche uno scranno nel Consiglio della Corona così
da potere soddisfare i suoi bisogni e
ostentare la sua nobilitate. Allo stesso fu dato il consenso di potere
soddisfare la sua brama di ascesa anche al dominio del natio borgo dove
s’insediò con un manipolo di suoi fidi: menestrelli di corte,legulei,
amanuensi,messi e agrimensori;in cambio fu costretto a rinunciare a far parte
del Consiglio della Corona,e conseguente fu la rottura del patto di non
belligeranza con il barbuto Signore della Contea del quale ne divenne indomito
rivale. Ebbe così inizio una epopea di tenzoni dalle quali il fiero signorotto
ne uscì ferito,più nell’orgoglio che nel corpo,e costretto a trincerarsi con
un manipolo di fedeli nel palazzo del
borgo,non disdegnando,di tanto in tanto,qualche sortita nei feudi viciniori alla
ricerca di nuove alleanze per una
rivalsa contro lo strapotere della baronia. Era in uso suggellare siffatte alleanze
festeggiando attorno a lussuose tavole imbandite dove venivano offerte agli
ospiti ricche ed abbondanti libagioni insieme, come segno di riconoscenza,a grassi e teneri agnelli del gregge del
signorotto.
Nel borgo,dopo gli osanna iniziali della plebe
per l’ascesa del Signorotto,un lungo periodo di carestia provocò la mancanza di
grano e di farina,mentre aumentavano le
gabelle per il sostentamento dei cortigiani. Il popolo,che si impoveriva di
giorno in giorno, incominciò a lamentarsi prima mormorando e poi rifiutandosi di
pagare i dazi. Nonostante nei forzieri del palazzo arrivassero sempre meno
tributi,il Signorotto, ascoltando dai trovatori i racconti sul grande Svevo
Imperatore,ne subì talmente il fascino che volle emularlo chiamando alla sua
corte poeti,fabbri,artisti e persino affabulatori berberi che ne cantarono le lodi.
Egli stesso si cimentò nell'arte della
scrittura e del decoro mostrando il suo estro nei vicoli,nei cortili, nelle
piazze e nelle contrade del borgo che
girava con il suo carro bardato a festa e arricchito da preziosi finimenti.
Anche
nel Consiglio del borgo i malumori e le invettive contro il signorotto si
facevano sempre più forti per l’aumento dei tributi e c’era chi proponeva di
arruolare armigeri per abbattere la potente Signoria.
Il Borgo, per le sue bellezze
paesaggistiche e per la minchioneria dei suoi abitanti, costituiva meta delle
scorribande delle popolazioni delle vallate circostanti, che una volta entrati,
spesso vi dimoravano definitivamente,vi aprivano botteghe e attività
commerciali e si arricchivano con il benestare dei locali.
Nel Borgo, ma in tutta la Contea, per la
verità, con una cadenza quasi biennale, aveva inizio una Giostra;i vicoli,i
cortili,le strade e le piazze venivano
inghirlandate con stemmi e con vessilli e in esse echeggiavano rulli di tamburi
e squilli di trombe suonate dagli araldi. Per l’occasione agli zelanti
servitori era concesso dai loro Signori di essere innalzati al rango di valvassori;era
loro consentito di indossare preziose cappe ed elmi con piume cromate per
poterle ostentare alla gleba, e permesso,anche, di potere circondarsi di
armigeri arruolati per l’occasione.
Tutto avveniva sotto gli sguardi compiaciuti,
caritatevoli e magnanimi delle Signorie del Principe e dei Baroni i quali non
disdegnavano di farsi ritrarre in confidenza accanto ai loro fidi. I vincitori
della disfida potevano avvalersi delle grazie delle loro maestà fino alla
prossima tenzone e fregiarsi dell’alto titolo di Messaggeri del Borgo;
acquistavano diritto di sedere sugli scranni del Consiglio della Contea o del
Consiglio del Borgo nell’attesa che venisse loro riconosciuta per i servigi
prestati la potestà di un feudo o concesso il governo del Borgo.
Nell'intervallo tra un Torneo e l’altro i cavalieri
riprendevano il loro ruolo di palafrenieri,di valletti e di paggi cambiando
padroni e signorie,mentre il popolo continuava a festeggiare,ad ingozzarsi,a
brontolare,ad inveire,a piagnucolare e ad invecchiare con le proprie sventure .
Il
viaggiatore,che mesto attraversava la porta di uscita dal Borgo vi osservava
una lapide con su scritto:
“Heu quam magna
olim, tam modo facta nihil.”