Cartesio


Non c'è nulla interamente in nostro potere,se non i nostri pensieri.
Cartesio

lunedì 30 novembre 2015

La Casbah di Mazara. Metafora di non integrazione

foto di Francesca Rizzo

Si è tenuta, in un Teatro Garibaldi gremito, la presentazione della ricerca sulla”Casbah di Mazara - Etnografia di uno spazio della Immigrazione” organizzata dall’Istituto Euroarabo in collaborazione con l’Associazione Alchimie.
La relazione è il frutto di una sintesi esauriente della propria tesi di laurea di Francesca Rizzo, condotta non senza difficoltà all’interno della casbah di Mazara, un microcosmo ancora poco conosciuto agli stessi mazaresi e che apre uno squarcio nella comprensione di uno spazio sul quale sono stati scritti centinaia di articoli e costruite metafore di integrazione più di fantasia che di realtà.
Con rilevamenti statistici ufficiali cade la nomea di Mazara “la più musulmana d’Italia”; il fenomeno immigratorio si è esaurito da qualche decennio da quando l’enclave magrebina ha dato vita anch’essa ad una emigrazione da quella che appariva, negli anni sessanti, la loro terra promessa. Mazara da città di immigrazione è diventata città di passaggio; sono centinaia le famiglie tunisine che, a causa della crisi economica che ha investito il settore della pesca, hanno deciso di emigrare in Francia o Germania o di ritornare al paese di origine.
Dei cinquemila e oltre immigrati degli anni settanta ne sono rimasti qualche migliaio, tra questi una consistente presenza di rom fuggiti dalle guerre delle regioni slave.
Troppo poco per parlare di una città multiculturale, multietnica e multi religiosa come vuole farla apparire una certa retorica politica. Ancor più, come rivela con chiarezza la relatrice, che quelle centinaia di immigrati hanno preferito una autoemarginazione rifugiandosi in compartimenti stagni in cui appare complessa ogni forma di comunicazione e contaminazione con quella che loro chiamano Europa, ovvero la città fuori dall’intreccio di vicoli e cortili della casbah.
Ma se la casbah rappresenta nei paesi di provenienza, il cuore pulsante della vita della comunità, con le sue attività caratteristiche, le sue relazioni, la sua creatività, il suo commercio, come fa notare l’architetto Gianni di Matteo durante il suo intervento, quella mazarese è uno spazio morto, triste, solitario, vuoto, desolato, vissuto da ombre , inanimato, nonostante i vari interventi di recupero che  sono stati fatti senza alcuna finalità progettuale.
Il peggio del retaggio culturale sopravvive all’interno di questo mondo solitario, le donne chiuse in casa e senza alcun contatto con il mondo esterno, gli uomini a giocare a carte e a fumare il narghilè nei tanti circoli tunisini ai quali l’accesso alle donne è tassativamente vietato.
La compartimentazione della casbah ha fatto sì che diventasse luogo di illegalità, di spaccio di droga, di microcriminalità. Dell’enclave magrebina e slava, è quella meno acculturata che vi vive, per scelta o per necessità, mentre quella più abbiente ha preferito andare a vivere fuori di quel contesto degradato, inserendosi nel contesto sociale. Il disagio sociale investe anche le seconde e terze generazioni che in mancanza di una politica di vera integrazione e di interscambio non vedono nella città il luogo dove costruire il loro futuro.



lunedì 23 novembre 2015

Mazara: incontro dibattito sulla Casbah


Sabato 28 novembre 2015 alle ore 17. 30
Teatro Garibaldi, Mazara
L’Istituto Euroarabo  in  collaborazione  con  l’associazione Alchimie
con il patrocinio del Comune di  Mazara del Vallo
promuove l’incontro-dibattito
La casbah di Mazara.
 Etnografia di uno spazio della migrazione
Intervengono
On. Nicolò Cristaldi, Sindaco
Francesca Rizzo, autrice della ricerca
Gianni Di Matteo, docente Accademia Abadir Catania
Coordina
Antonino Cusumano, Istituto Euroarabo

La casbah di Mazara del Vallo è quartiere di particolare densità storica e di rilevante interesse sociale e culturale, dal momento che conserva tracce significative della memoria urbana e vi sono oggi insediate comunità etniche diverse. La ricerca che viene presentata,condotta da Francesca Rizzo, laureata in Antropologia culturale, ne ha esplorato le dinamiche relazionali, i processi di appropriazione e di rifunzionalizzazione degli spazi, le forme dell’abitare e del convivere, tra conflittualità e solidarietà. Un’occasione per conoscere una realtà architettonica in trasformazione, per capire il ruolo della presenza degli immigrati stranieri, per discutere del centro storico e per riflettere sulle sue possibilità di sviluppo.

















domenica 15 novembre 2015

Nel nome di Allah


Ad appena 10 mesi dall’eccidio di Clarlie Hebdo, il ripetersi di quell’incubo attentati si è materializzato in maniera ancora più drammatica ed eclatante in luoghi inattesi, tutti diversi tra di loro, imprevedibili: lo spiazzale dello stadio mentre si gioca una partita tra le nazionali di Francia e di Germania, una sala di concerto affollata da migliaia di giovani, un ristorante etnico, una pizzeria italiana. Un attacco concentrico, militarizzato, contro cittadini inermi, per lo più giovani, come giovani erano le loro belve assassine. Un locale per concerti, dove il rock duro nel giro di un paio d’ore diventa suono funebre e i martiri di Allah trasformano il Bataclan in una camera della morte con la mattanza di ottanta giovani la cui sola colpa è quella di trascorrere una serata di divertimento. E’ in luoghi come questo, insospettabili, che le la belva jihadista compie il rituale spargimento di sangue contro quei valori simboli di un occidente considerato abominevole, perverso, idolatra, peccaminoso, decadente.

 Il volere dare una lettura geo politica alla carneficina della scorsa notte vuol dire offendere ogni ragionevole intelligenza. Non c’è bisogno di richiamare alla memoria il grido di rabbia di Oriana Fallaci o filosofeggiare sullo Scontro di Civiltà teorizzato da Samuel Huntington; non è questo il punto, in quanto uno scontro prevede due contendenti e l’Occidente, pur con le sue contraddizioni, con i suoi errori e le sue colpe, non appartiene a questa categoria, ammesso che si possa attribuire alla jihad il valore di civiltà, se questa non riconosce né concepisce i principi che sono alla base dello stesso concetto di civiltà.

È chiaro a questo punto che il terrorismo jihadista ha un solo obiettivo preciso, distruggere l’Occidente, non sul piano fisico, anche se la morte è lo strumento per raggiungere il fine, ma su quello dei suoi valori, dei suoi principi fondanti, la libertà, la democrazia, il rispetto dell’altro, l’accoglienza, l’uguaglianza che ne fanno una civiltà contrariamente alla barbarie . Attentati plurimi, organizzati minuziosamente ed eseguiti da kamikaze che, nell’ipocrisia di un martirio vigliacco nel nome della infinita grandezza di un dio, fanno del sacrificio di se stessi il mezzo per ascendere alla felicità eterna, non possono avere solo una limitata connotazione geo-socio-politica avulsa dalla religione. Altrimenti che senso ha il grido Allah akbar? E quale motivazione si vuole cercare in quell’enunciare l’immensità di Dio attraverso lo sgozzamento seriale di ostaggi, l’abbattimento di aerei con a bordo famiglie e bambini, o a colpi di kalashnikov: il disagio sociale oppure la difesa della propria identità, della propria civiltà, dei propri confini messi in pericolo dai satanici crociati dell’Occidente? La verità è che mai come in questo caso la politica e la religione in quel mondo islamico si fondono, si contaminano, si mescolano, si amalgamano in un composto dal quale i componenti stessi diventano un tutt’uno e indivisibili. In questo intreccio la politica si fa religione e la religione si fa politica e l’ideologia da una parte e la fede dall’altra danno luogo ad una miscela esplosiva non controllabile dalla ragione. E infatti cosa c’è di ragionevole in quel che è successo a Parigi?

Cosa c’è di ragionevole in un Occidente sotto attacco da quindici anni nel nome di Allah akbar: New York, Madrid, Londra, Parigi, Copenaghen; non solo le città,ma i principi e i valori che lo rappresentano, la cultura, la libertà di espressione, la tolleranza, la parità di diritti, la democrazia

Da quindici anni hanno dichiarato guerra al grido di Allah è il più grande, in modo non convenzionale, usando la più efficace tra le armi , il terrorismo che uccide fisicamente e soprattutto psicologicamente perché genera panico e insicurezza.

Cosa c’è in tutto questo di ragionevole?

E cosa c’è di ragionevole in quel canto in arabo, a tutto volume, del muazzin che per tutto il pomeriggio ,mentre scrivo queste note, continua a martellare le mie orecchie, sempre con la stessa tonalità, la stessa cadenza, lo stesso timbro, lo stesso suono, la stessa voce? Da noi i rintocchi delle campane a morto ci segnalano un evento luttuoso.

La voce del muazzin, per noi infedeli, potrebbe trasmettere qualsiasi stato d’animo, potrebbe essere un suono di lutto o di gioia. Potrebbe anche essere una preghiera per i martiri di Allah.

Come si fa a capirlo?