Cartesio


Non c'è nulla interamente in nostro potere,se non i nostri pensieri.
Cartesio

giovedì 3 luglio 2014

Somiglianze



di    Clelia Bartoli

Il racconto di un incontro fortuito tra due giovani ragazze in cerca di identità, straniere entrambe ma in diverso modo…


Sari frusciante e inamidato, ancora troppo vaporoso ma di grande effetto, di colore sfacciato a confronto con i sobri toni del blumarron-grigiobeige imperante tra muri, abiti, divise ed auto dell’italico suolo.
Silvia avanza impacciata e orgogliosa nella sua nuvola confetto, la segue una valigia a rotelle contenente i pochi effetti che traghetteranno con lei dalla vecchia alla nuova vita. È arrivata al porto, raggiunge il molo, si imbarca, salpa sull’attempato traghetto che rimbalza, anni or sono, tra Palermo e Civitavecchia.
Ricevute le chiavi, Silvia si avvia versa l’economic cabin. Tale alloggio marino a buon mercato è un loculo biposto, privo di oblò, mancante di bagno e, se si viaggia soli, da condividere con passeggero sconosciuto; l’equipaggio non garantisce sulla compatibilità caratteriale, ma si premura di evitare pernottamenti promiscui: uomini con uomini, donne con donne.
La ragazza aggrovigliata nel sari con a seguito il fagotto rotante ripensa alla sua scelta, a ciò che lascia e a ciò che troverà, giunta davanti alla porta l’apre di scatto, dimentica di potervi trovare l’altro femmineo essere con cui spartirà la notte. Sundari, già alloggiata nella cabina, sobbalza all’ingresso improvviso.
Silvia e Sundari si ritrovano faccia a faccia: Silvia nel suo sari color fiore di loto appena colto, Sundari nei suoi jeans sbiaditi, Silvia rosea e dalla composta treccia bionda, Sundari dalla pelle marrone con corti capelli nero corvo.
A causa dello spavento o per la meraviglia, Sundari non si trattiene e, soffocando una risata, le chiede: «Come ti sei conciata?». La domanda non voleva essere irriverente, anzi sorgeva da un istinto protettivo da sorella maggiore: a Sundari era apparsa imbarazzante l’immagine di quella ragazza italiana infagottata in un sari fucsia squillante, ancora incapace di indossarlo con la dovuta dimestichezza, con le piegature mal fatte che le creavano un disarmonico bozzo sull’addome. Per riparare al quesito indiscreto e volendo salvare la fanciulla da un farfugliamento in cerca di una risposta convincente, Sundari aggiunge: «Scusami, intendevo dire che le pieghe del sari non sono fatte come si deve e così forse sei un po’ scomoda, se vuoi ti aiuto a indossarlo meglio». Silvia annuisce, pur di non rispondere all’interrogativo che l’aveva gettata in confusione, e si lascia sfilare il sari dalla gonna sottostante, Sundari lo piega con perizia e glielo rimodella addosso dandogli una forma aggraziata che la soddisfa alquanto. L’intimità di quella operazione spazza via il disagio e allestisce tra le ragazze un clima di confidenza.
«Il sari è un vestito bellissimo – commenta Silvia – ma è così difficile da indossare». «Quand’ero piccola anche a me piaceva molto metterlo, mi sentivo una principessa, era la cosa più simile ai vestiti di Barbie che conoscessi, ma adesso saranno anni che non lo metto più».
«Come mai? Se lo sapessi mettere come sai fare tu… Ma non vuoi più indossare i vestiti del tuo paese?»
«Beh, forse è proprio questo il punto, l’India è il mio paese? Sono in Italia da ventidue anni e ne ho ventisette. E poi senti da che pulpito: tu perché non indossi i vestiti del tuo paese?»
«Sto provando a diventare indiana, o meglio a diventare indù, sai sono appena andata via da casa e sto per entrare in una comunità induista. Ma tu sei induista?».
«In realtà non sono in stretti rapporti con Dio, non solo con Visnu e consorte, ma con Dio in generale. Se stai diventando induista saprai che Dio si copre con l’abbagliante velo di Maya per non essere troppo invadente, per lasciarci liberi; ma a me si è nascosto sotto una coperta spessa che non lascia trapelare nessuna forma, nessun indizio di una presenza oltre di essa e così me lo sono dimenticato o forse mi ha dimenticato. Il risultato è che mi sento più leggera e anche più spaesata. Spaesata è un buon termine: senza paese, nemmeno nell’aldilà. Ma non farmi filosofare troppo, a te com’è venuto in testa di darti all’induismo?».
«Potrei darti molte risposte: che sia stata l’insondabile misericordia divina a mettermi su questo cammino o il mio bisogno ostinato di risposte, la paura di crescere o la vocazione da missionaria. Sono tutte ragioni plausibili, ma sforzandomi di essere brutalmente schietta, proprio perché tra poco questa nave mi partorirà ad una nuova esistenza, ed è meglio iniziarla con sincerità, credo di essere in cerca di un’identità. Questo abito e questi segni che indosso testimoniano che ho fatto una scelta, che ho una fede e un’appartenenza, dunque fanno subito di me qualcosa di distinto, mi sembrava di non essere nulla senza distinguermi e l’abbracciare la religione indù così bella, intensa e così severa mi sembra il modo migliore per distinguermi».
«Buffo, sei il mio rovescio: la mia vita è stata ossessionata dal voler assomigliare. Per me identità ha sempre significato somiglianza piuttosto che distinzione. Volevo assomigliare alle mie compagne e ai miei compagni di scuola, rimanere indistinta nella scolaresca che sboccava dai portoni al suono della campanella e invece quelle signore imbiondite dai loro parrucchieri mi indicavano: “Ma che bellina quella bimba di colore. Chissà se mangia abbastanza? Ha delle gambette così secche”. Avrei voluto assomigliare a Candy Candy, alla maestra e alla Madonna; alla bambina dirimpettaia che non era un granché ma faceva simpatia a tutti; e invece trovavo il mio omologo solo in quelle illustrazioni da sussidiario di stupidi girotondi che stereotipano le razze del mondo, fingendo di rappresentare concordia e pace globale. E poi ho sempre odiato quella demenziale e martellante domanda “di dove sei?” che mi ricordava che c’era qualcosa in me che mi faceva apparire subito diversa. Ma soprattutto avrei voluto assomigliare ai miei genitori e invece, man mano che crescevo, siamo diventati sempre più dissimili e distanti. I miei non sono andati mai via dall’India, anche se hanno preso un aereo che li ha portati a Roma. In Italia hanno lavorato, hanno fatto casa, vissuto e forse ci moriranno. Ma solo ciò che succede in India è davvero importante per loro: le notizie, le persone e i personaggi di qui sono vaghe sagome sullo sfondo».
Silvia tenta di incoraggiarmi dopo aver ascoltato il mio sfogo: «Forse sono solo un po’ nostalgici, anche mio padre lo era quando lavorava al nord; ma mi sembra impossibile non assomigliare ai propri genitori».
«La lingua ci ha allontanato: l’italiano dei miei si è arrestato presto ad un livello bastante alla sopravvivenza, mentre diventava la lingua dei miei pensieri e dei miei sogni; la mia lingua madre si è fatta matrigna, ho quasi dimenticato il maharati. Le cose più intime, più profonde le avrei potute dire solo in italiano, ma né mia madre, né mio padre le avrebbero intese. E così è successo che ci ritrovammo ad abitare nella stessa casa e in due continenti diversi».
«E pensare che io ebbi un fremito di paura quando scoprii che crescendo stavo diventando sempre più simile a mia madre. Mi imposi di fuggire dal suo modello, non perché lo rinnegassi, ma per sentire che quello che sarei diventata era un’identità mia e non ereditata passivamente, non volevo crescere nella stampo utilizzato per i miei genitori».
«Penso di capirti. In fondo mi sento orgogliosa di essere cresciuta senza un’appartenenza rigida. Mi sento brava quando penso che sto reggendo, pur con un’identità malferma e confusa, senza modelli, essendo continuamente scambiata per qualcosa che non sento di essere; ma è faticoso e non so nemmeno se, potendo scegliere come rinascere, mi addosserei nuovamente il peso del costante smarrimento, ma soprattutto la solitudine del non assomigliare a nessuno».
«Anche io penso di capirti. Sto fuggendo dalla somiglianza verso la mia famiglia, dalla religione degli avi, dai copioni prescritti dalla tradizione, ma forse perché anche io me ne sento esclusa o meglio estranea; sto andando in cerca di un’appartenenza più forte, cerco compagni di fede, una famiglia sublimata o surrogata in cui essere nuovamente figlia. Ma a proposito tu dove stai andando?».
«Più che andare sto tornando, torno alla solita vita, e vengo da un concerto. Ogni tanto ci vado, perché c’è folla e c’è buio e tutti cantano con una sola voce e guardano nella stessa direzione. Durante quel paio d’ore mi sento uguale a tutti, è un’uguaglianza rozza, da gregge se vuoi, ma è il mio illusorio sollievo al non assomigliare a nessuno e poi mi piace la musica».
«Anche a me piace la musica».
«Allora forse non siamo così diverse».
«Forse vogliamo cose simili, per esempio io adesso ho voglia di dormire, e tu?».
«Anch’io, buona notte».
E la nave oscillando le condusse ad un nuovo porto, provvisorio rifugio.

 Fonte: DialoghiMediterranei, n.8, luglio 2014
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Clelia Bartoli, docente di “Diritti umani” presso l’Università di Palermo, già esperta presso la struttura di missione del Ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. Dal 2013 è consulente, a titolo gratuito, del Comune di Palermo per le politiche relative alla popolazione Rom. Tra i suoi libri: le curatele: Sull’universalità dei diritti umani (Firenze University Press, 2003) e Esilio/Asilo. Donne migranti e richiedenti asilo in Sicilia (Ed. DuePunti, 2010). Le monografie: Il monoteismo hindu. La storia, i testi, le scuole (con Federico Squarcini, Pacini, 1997); La teoria della subalternità e il caso dei dalit in India (Rubettino, 2008);Razzisti per legge. L’Italia che discrimina (Laterza, 2012).
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