Cartesio


Non c'è nulla interamente in nostro potere,se non i nostri pensieri.
Cartesio

sabato 28 febbraio 2009

Caso Englaro: Una storia infinita

Non accenna a calare il silenzio sulla vicenda di Eluana, così come non accennano ad abbassarsi i toni della Chiesa che ancora per bocca del cardinale Javier Lozano Barragan, presidente del Pontificio consiglio per gli operatori sanitari per la Pastorale della salute, torna ad attaccare Beppino Englaro: "Abbiamo un comandamento, il quinto, che dice di non uccidere. Chi uccide un innocente commette un omicidio e questo è chiaro. Se Beppino Englaro ha ammazzato la figlia Eluana allora è un omicida".Corriere della sera-27/2/09

Sconcertante è dir poco. E’ rivoltante l’uso del termine ammazzare in questa vicenda. Appellarsi al 5 comandamento è una bestemmia giuridica, religiosa e quanto di più inumano possa uscire dalla bocca di un uomo. Ancor più grave, se chi insiste a dirlo in modo sguaiato è un cardinale. Se ragioniamo in questo modo, e se volessimo continuare a bestemmiare, visto che ci portano a farlo coloro che invece dovrebbero stendere su questa penosa storia un velo di pietà cristiana, allora dovremmo con lo stesso ragionamento, affermare che “se Dio ha predestinato Suo Figlio come vittima sacrificale, allora è un assassino” . Aberrante il solo pensarlo! La mia chiesa non accuserebbe mai quel padre di assassinio. Forse ho sbagliato chiesa?



venerdì 27 febbraio 2009

L'eterna sfida tra scrittore e lettore


Si dice che lo scrivere sia lo specchio di una persona. Parafrasando si può dire: “ Se leggo come scrivi ti dirò chi sei“. Dalla ricercatezza delle parole, dalla struttura delle frasi, dalla presenza di intercalari o di metafore,colui che scrive mostra al lettore la sua anima. E’ una continua provocazione intellettuale tra chi scrive e chi legge; è anche una sfida alla comprensione del testo, di frequente ad armi impari. Da una parte l’uso e spesso l’abuso di citazioni e riferimenti a letture specialistiche ed elitarie, dall’altra, un ricorrere a dizionari e a vocabolari sonnecchianti e impolverati delle nostre ricche enciclopederie*- librerie, contenitori cartacei esposti a mostrare l’illusione del nostro sapere, per decriptare ciò che si legge e non si capisce.

Il linguaggio cambia, è mutevole nel tempo, ad esso si adegua, spesso lo precede; l’intellettuale rimane estraneo a questa metamorfosi, sembra ignorare anche il livello culturale del lettore; nel rifiutarsi di accettare il diffondersi di nuovi modelli di comportamento, di linguaggio,di stile delle giovani generazioni,si trincera nel chiuso del guscio impermeabile del proprio vissuto. Dal sofisticato e narcisistico lessico arbasineggiante godibile solo da una ristretta casta, all’ uso di parole di radice greca del tutto desuete nel linguaggio comune, chi scrive mette a dura prova la capacità intellettiva di chi legge. Grande è la delusione quando i lettori scoprono l’inadeguatezza dei loro strumenti di difesa. Non tener conto di questa asimmetria culturale non aiuta ad avvicinare la gente alla buona lettura e all’arricchimento dello spirito .

Durante una memorabile lezione di biologia ,tenuta contemporaneamente, ed in via eccezionale dal biologo prof. Giuseppe Reverberi e dal cristallografo prof. Marcello Carapezza, riguardante la struttura tridimensionale del DNA, scoperta da Watson e Crick nel 1953, il prof. Reverberi ebbe a dire a noi studenti: ”La presenza di due scienziati non vi deve mettere ansia; siamo come due professori d’orchestra che tenteranno di suonare uno spartito apparentemente complicato ; insieme cercheremo di farvi ascoltare delle note armoniche che vi trasporteranno in un vibrante vortice di suoni. In natura niente è complicato, tutto è stato scritto in una forma semplice; la facilità di comprensione o la difficoltà di dipende dal linguaggio che adoperiamo.”

La cultura della saggezza sta nel rendere immediatamente fruibile ciò che si vuole esprimere. Ogni qual volta apre un libro, il lettore è preso da attacchi di ansia,eternamente incerto se riuscirà a portare a termine la lettura o abbandonarla dopo due capitoli. Di solito si tralascia la prefazione. Personalmente ne faccio a meno .Ci sono prefazioni brevi,scritte in forma semplice e scorrevole,altre sono lunghe,accademiche, noiose,” camurriuse ” come dice Camilleri, dei veri saggi critici. Dalle prefazioni ci si può fare l’ idea del libro secondo il recensore; il più delle volte questa idea non coincide, anzi stride, con le conclusioni del lettore. Meglio abolirle. Se io fossi uno scrittore, a secondo del livello di difficoltà che il libro presenta,aprirei con una premessa avvertendo il lettore che la lettura non sarà facile, magari parafrasando i primi quattro versi di una memorabile poesia licenziosa di Domenico Tempio

” Cu pati di sintòmi e di stinnicchi,

ppi non sentiri cosi stralunati,

s'intuppassi lu zuccu di l'oricchi;

non sù pp'iddi sti cosi nzuccarati!.”

E’ il minimo che lo scrittore possa fare per rispetto di chi acquista il libro per leggerlo. A questo punto il lettore sa cosa l’attende; se vuole accettare la sfida si procuri le armi, gli strumenti necessari: dizionari, vocabolari,traduttori, computer e vada avanti. Altrimenti riponga il libro a far bella mostra nella sua enciclopederia domestica. Sarebbe meglio, però, non acquistarlo!

* Contenitore ligneo di enciclopedie

L.T


mercoledì 25 febbraio 2009

Operazione "Eolo "

Una coltre di silenzio

Un carnevale strano, freddo e bagnato da una persistente pioggia; la sensazione è quella di una città pervasa da una incommensurabile tristezza; la Piazza della Repubblica deserta, nel bar qualche cliente che velocemente consuma la sua colazione fatta di cornetto e caffè, senza alcuna voglia di parlare, di scambiare qualche parola come si faceva ogni mattina, nelle mattine normali. Nessun impiegato comunale, quando in altre occasioni quel bar era il loro punto di incontro prima di entrare in ufficio. Osservi e vieni osservato, messaggi telepatici costituiscono il silenzioso dialogo tra persone che si conoscono; ci si comprende con lo sguardo. La comunicazione visiva caratterizza noi siciliani dal resto dell’umanità, con gli sguardi comunichiamo stati d’animo, ammicchiamo, sottintendiamo, interroghiamo, mostriamo meraviglia, traiamo conclusioni. Lo sguardo è la parola del silenzio. Nessuno parla della recente operazione “ Eolo “, non se ne ha voglia, o meglio, se ne vorrebbe parlare, ma mancano gli interlocutori. Quel bar, crocevia di impiegati e dirigenti del comune, di politici e amministratori, di operatori dell’informazione e professionisti, di commercianti e insegnanti appare depresso. Tutti scomparsi, tutti muti, tutti discreti. Anche le emittenti locali, nei loro notiziari sembrano non volere approfondire, l’informazione è stringata, travolta anch’essa dal frastuono del silenzio. Nessuna reazione ufficiale da parte dell’amministrazione comunale, nessuna presa di posizione da parte del Consiglio comunale, che in altre occasioni per temi meno rilevanti rispetto a quelli accaduti in questi giorni, non disdegnava convocazioni pompose e straordinarie aperte anche ai cittadini. Si parla di condizionamento mafioso del consiglio comunale e la risposta da parte di quest’ultimo è far calare una coltre di silenzio sulla vicenda. Un brutto scherzo di carnevale il silenzio.

lunedì 23 febbraio 2009

L'Eolico non è " Mafia "

La recente operazione “ Eolo “ che ha portato alla luce collusioni affaristico –politico-mafiose relativamente alla concessione dell’autorizzazione di un parco eolico nel territorio di Mazara del Vallo, ha destato un clamore rilevante in campo nazionale. Se si aggiungono, inoltre, le dichiarazioni del sindaco di Salemi Vittorio Sgarbi, il quale contro l’insediamento dei parchi eolici in Sicilia sembra volerne fare una battaglia personale, allora il messaggio che si vuole far passare è che l’eolico è “ mafia”. Nulla di più fuorviante. L’eolico rappresenta il futuro nello sfruttamento dell’energia alternativa, e come tale, per i grandi investimenti di capitale che in esso vengono riversati, non sfugge all’attenzione della mafia, soprattutto nel nostro territorio. Ma guai a generalizzare. Decine e decine di parchi eolici in Sicilia sono soggetti alla mafia? Affermare una simile stupidaggine significa far torto a quanti, nell’eolico riversano capitali, energie, intelligenze, contribuendo a creare centinaia di posti di lavoro. Portare avanti una simile tesi significa mortificare tutti quei settori produttivi, che a costo di enormi sacrifici, e nel rispetto delle regole della legalità, stanno contribuendo a liberare la Sicilia dai tentacoli asfissianti della piovra.




giovedì 19 febbraio 2009

La Piovra 2


Verso lo scioglimento del consiglio comunale?

I recenti fatti che hanno portato alla luce inquietanti intrecci tra mafia e politica a seguito dell’operazione “Eolo,” che vede come protagonisti principali, secondo la magistratura, un consigliere comunale e due funzionari del comune, uno dei quali raggiunto da mandato di cattura in carcere, la collettività appare frastornata. Essa si interroga se verrà applicato l’art.143 del T.U.E.L. n° 267/2000, il quale prevede lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa. A pochi mesi dalle elezioni amministrative che interessano l’elezione diretta del sindaco e il rinnovo del consiglio comunale, un decisione che andasse verso lo scioglimento coatto da parte del Presidente della Repubblica su decreto della presidenza del Consiglio farebbe precipitare questa città, definitivamente, in un baratro,dal quale non avrebbe più possibilità di rinascita. Verrebbe inferto un colpo mortale non solo alla economia, ma alle speranze di tutta la gran parte della popolazione, vittima ancora una volta , dell’intreccio mafioso affaristico e amministrativo di pochissime persone. Sarebbe un durissimo colpo per la tormentata democrazia in questa città ed una umiliazione insopportabile per tutta la gente onesta. Un processo radicale di cambiamento sarà possibile, solo se alla Città sarà consentito di scegliere democraticamente il proprio futuro. Per questo ci auguriamo che il consiglio comunale non venga sciolto.


mercoledì 18 febbraio 2009

La piovra eolica



Mentre in tutto il mondo scientifico continuano le manifestazioni per ricordare i 200 anni dalla nascita di Darwin, in Sicilia la " teoria dell'evoluzione della specie" attraverso l'adattamento all'ambiente trova conferma in maniera inoppugnabile.

sabato 14 febbraio 2009

Una città in cerca d'identità


Ci vogliono temi di grande spessore per fare svegliare la città dal suo stato di sonnolenza, e l’argomento introdotto da Tonino Salvo e ripreso con raffinatezza di contenuti da Tonino Cusumano e da Piero Di Giorgi scuote la sensibilità di ciascuno di noi. Il dibattito sul progetto per la realizzazione di un porticciolo turistico dirimpetto il lungomare di Mazara ( di fronte alla Cattedrale? ), non può passare sotto silenzio e restare inascoltato, “anche se così sarà”. La posizione di Tonino Cusumano è condivisibile in quella parte in cui sviscera tutta quella tensione morale e quella cultura della memoria connaturata nell’etica e nell’estetica da troppo tempo estranea a questa collettività. Infatti, da tempo si assiste al deturpamento del profilo della città, che attraverso una cementificazione incontrollata ed asfissiante, ha spazzato via un patrimonio paesaggistico incommensurabile. Basti ricordare la scomparsa della magnifica visione delle cupole della Cattedrale che affascinava chi entrava in città da est, proveniente da Castelvetrano. La nostra generazione non può tirarsi fuori dalla responsabilità di avere delegato al governo della città politici che si sono dimostrati inadeguati e impreparati ad affrontare problematiche serie e di grande prospettiva, i quali hanno sacrificato e sostituito l’estetica con la bruttura, la sobrietà con l’appariscenza, l’armonia con la dissonanza, l’eleganza con la sciatteria, la diligenza con la mediocrità, la cultura con l’oscurità. “La cultura, scriveva Scalfari, non è una caratteristica elitaria, riservata a poche persone, teste d’uovo o anime belle. Uomini che ne siano privi, pur potendo compiere imprese egregie, non possono guidare una comunità senza provocare guasti assai gravi.”

In questa città è successo e succede! L’incuria del territorio, conseguenza di tale inadeguatezza, lo ha privato di identità, ne ha cambiato la fisionomia, ha offuscato la memoria dei suoi abitanti ai quali è stata negata quel che la natura ha loro donato: la capacità di godere e meravigliarsi del bello. Oggi, le piazze, le vie, la villa comunale, sono deturpati da oggetti alieni che sotto forma, inizialmente, di tavolini e ombrelloni sono stati trasformati in gazebo, in trattorie, pizzerie, cafè hours, wine-bar, giostre. Per non parlare delle schiere di pagode con stand pieni di paccottiglie, di oggetti inutili, dozzinali, da modesto mercatino rionale che con cadenza ciclica invadono le piazze storiche, la villa e il lungomare. Lo spazio pubblico è diventato sempre più limitato e inaccessibile: vero paradigma del disamore della politica (solo della politica?) verso la città. Tutto è stato consumato in presenza di una comunità apparsa in catalessi, incapace di indignarsi persino di fronte al vandalismo imperante o dinanzi all’afrore dei rivoli di piscio che ammorbano le vie del centro storico. Siamo stati quasi indotti a modificare il concetto di bellezza in funzione di ciò che ci è stato detto di vedere al fine di privilegiare il beneficio rispetto all’estetica, e non ci siamo accorti, pur essendone testimoni consapevoli, che questa città da “ Inclita” si stava trasformando lentamente, purtroppo, in una Lilliput. Il lungomare rimane ancora uno dei luoghi più incantevoli di questa città, dove si possa ancora esercitare la fantasia, spaziare oltre i confini dell’orizzonte, godere dell’elegante volo dei gabbiani o dell’incanto dei suoi spettacolari tramonti. ” Ora si vuole strappare allo sguardo dei mazaresi quel mare che ha sempre accompagnato la traiettoria del loro tempo, la dimensione infinita dello spazio. “ scrive Tonino Cusumano, e ancora:”.. una barriera di fortissimo impatto irrimediabilmente posta tra la città e il mare, una violenta cesura nella trama del paesaggio e nello specchio di luce, una ferita nel cuore di chi guarda e cerca l’orizzonte”. In queste poche e belle parole vi è la storia del rapporto che noi abbiamo con questo mare. Tutto questo, però, che fa parte della sensibilità soggettiva, “geografia dell’anima” come la definisce Piero Di Giorgi, può costituire una eredità vincolante per le nuove generazioni? Per meglio intenderci: possiamo imporre alle future generazioni sensibilità e percezioni ( le nostre ) che forse saranno diverse dalle loro sensibilità e percezioni? Oppure queste sensibilità, che possono essere condivise, devono servire da stimolo per costruire una nuova cultura, che veda la trasformazione del paesaggio in armonia con le reali esigenze della collettività e in funzione delle dinamiche socio culturali di cui la collettività stessa è soggetto attivo? Alla prima domanda la risposta è no, e dello stesso orientamento sono i grandi architetti, urbanisti e sociologi. Non abbiamo nessun dovere di vincolare le future generazioni al nostro concetto di estetica; se così fosse, tutto resterebbe immutabile, innaturale. La stessa natura non si attiene al principio etico della conservazione, essa non ha emozioni, non prescrive norme morali. A mio parere la collettività non può sottrarsi ai processi di intervento su parte del paesaggio per non rischiare di restare isolata ed esclusa dai flussi turistico culturali verso i quali intende indirizzare il futuro della città. La risposta alla seconda domanda è gia contenuta nel quesito stesso e non può non essere che affermativa, a condizione però che si avvii un processo che abbia come fine l’acquisizione di una identità, che purtroppo, tuttora manca e che si abbiano chiari gli obiettivi che si vogliono raggiungere, e attraverso quali percorsi. Sta all’uomo fare ciò che ritiene sia utile e giusto per la collettività ma che non ne violenti la sensibilità. Non è esclusiva della natura plasmare il paesaggio, esso è ciò che l'uomo fa e ciò che dell'uomo momentaneamente resta, come tale è sempre in dinamica trasformazione. Tuttavia l’opera dell’uomo non può essere arbitraria; essa non può prescindere dal paesaggio offerto dalla natura e deve armonizzarsi quanto più possibile con esso. Piero Di Giorgi, in maniera chiara espone considerazioni convincenti sulla bontà del progetto oggetto della discussione come: “ la sua organizzazione spaziale si combina con il waterfront della città valorizzandone le valenze storico-culturali” e ancora: “ a me pare che il progetto non cancelli la vista dell’orizzonte ma neanche del mare più vicino”, per poi concludere:” almeno quel progetto bonifica quel paesaggio, lo rende più pulito e piacevole”. Come si fa a non condividerle? Poiché non si può entrare nel merito tecnico, sorge spontanea la domanda:” Perché proprio lì, in quel posto, e non in un’altra parte forse più idonea per caratteristiche intrinseche e logistiche e sicuramente più protetta dalle intemperie meteo-marine? Obiezioni legittime che però non tengono conto del fatto che già il lungomare è in trasformazione, che la futura passeggiata è destinata, a breve, ad allungarsi verso est fino alla chiesetta di S.Vito, che in questo modo una maggiore angolazione prospettica e uno spazio più ampio usufruibile, consentiranno di poter godere con maggiore intensità dello spettacolo dei colori e delle sensazioni che la natura sa offrirci, permettendoci di allungare ancor più lo sguardo verso l’orizzonte, per restare nel tema della “ geografia dell’anima”. Destinare la parte iniziale del lungomare ad un porticciolo turistico non costituirebbe un problema di impatto ambientale, nè una “cesura” nella trama del paesaggio. Tale cesura esiste già ed è rappresentata dalle dighe foranee e dai loro lunghi bracci ( vedi foto ). Al contrario, il porticciolo turistico renderebbe più vivo questo specchio d’acqua e più appetibile la città; il porticciolo sarebbe il volano per la valorizzazione artistico culturale dell’intero territorio, costituirebbe il rilancio della sua asfittica economia, costituirebbe un motivo in più per aprirci agli altri, uscire dallo stretto guscio in cui ci siamo rinchiusi ed incominciare a confrontarci con gli altri.. Solo così potremo sentirci intimamente connessi con un Mediterraneo dove, come scrive Predrag Matvejevic :” popoli e razze hanno continuato per secoli a mescolarsi, fondersi e contrapporsi gli uni agli altri, come forse in nessuna altra regione del pianeta “ .

L.T

S.Valentino

La vampa nel cuore.

mercoledì 11 febbraio 2009

Per non dimenticare Attilio Manca

di Giuseppe Gentile

Attilio Manca venne ritrovato cadavere il 12 febbraio 2004, verso le ore 11. Il suo corpo era riverso trasversalmente sul piumone del letto (il letto era intatto ed in ordine, come se non fosse andato a dormire), seminudo. Dal naso e dalla bocca era fuoriuscita un’ingente quantità di sangue, che aveva finito per provocare una pozzanghera sul pavimento. Dalle fotografie effettuate si ricavano i seguenti elementi: il volto di Attilio presentava una vistosa deviazione del setto nasale; sui suoi arti erano visibili macchie ematiche; l’appartamento era in perfetto ordine; nella stanza da letto si trovava ripiegato su una sedia il suo pantalone, mentre inspiegabilmente non furono rinvenuti i boxer né la camicia; altrettanto inspiegabilmente sullo scrittoio erano poggiati suoi attrezzi chirurgici (ago con filo inserito; pinze, forbici), che egli mai aveva tenuto a casa; sul pavimento, all’ingresso del bagno, si trovava una siringa da insulina, evidentemente usata, cui era stato riposizionato il tappo salva-ago; in cucina non v’era traccia di cibo, consumato o residuato; sempre in cucina, nella pattumiera si trovavano, tra l’altro, un’altra siringa da insulina, evidentemente usata, cui erano stati riapposti il tappo salva-ago ed anche quello proteggi-stantuffo, e due flaconi di Tranquirit (un sedativo), uno dei quali era completamente vuoto mentre l’altro solo a metà. Il medico del 118, alle ore 11,45, effettuando l’accertamento del decesso, attestava che Attilio Manca era morto circa dodici ore prima, quindi a cavallo della mezzanotte fra l’11 ed il 12 febbraio 2004. Veniva disposta immediatamente l’autopsia, che veniva affidata alla dr.ssa Ranalletta, medico legale, curiosamente moglie del prof. Rizzotto, primario del reparto di urologia dell’ospedale Belcolle di Viterbo, nel quale prestava servizio Attilio. Al momento dell’incarico alla dr.ssa Ranalletta, peraltro, il marito era già stato sentito come testimone dalla polizia. La relazione autoptica, pur lacunosissima (tanto che in seguito il Gip si è trovato costretto a ordinarne un’integrazione), e quella tossicologica attestano che: nel sangue e nelle urine di Attilio Manca erano presenti tracce di un rilevante quantitativo del principio attivo contenuto nell’eroina, di un consistente quantitativo di Diazepam, principio attivo contenuto nel sedativo Tranquirit, e di non ingente sostanza alcoolica; la causa della morte di Attilio Manca va ricondotta all’effetto di quelle tre sostanze, che provocarono l’arresto cardio-circolatorio e l’edema polmonare; sul corpo di Attilio Manca erano visibili, al braccio sinistro, due segni di iniezioni (corrispondenti quindi alle due siringhe ritrovate), una al polso ed una all’avambraccio; su tutto il resto del corpo non era visibile traccia alcuna di iniezioni, recenti o datate. Attilio Manca era un mancino puro e compiva ogni atto con la mano sinistra. Tutti coloro che lo hanno conosciuto sanno che aveva scarsissima praticità con la mano destra. Tutti i suoi colleghi e amici frequentati nell’ultimo anno di vita, sentiti come testimoni nell’immediatezza, dichiaravano che era da escludersi che Attilio assumesse sostanze stupefacenti e che avesse ragioni per suicidarsi. Veniva anche accertato che, a partire dalle ore 20 circa del 10 febbraio, Attilio non aveva più avuto contatti, telefonici o di presenza, con amici e colleghi. La sera del 10 febbraio aveva deciso di non partecipare, contrariamente al solito, ad una cena fra colleghi. Nei giorni precedenti aveva chiesto e ottenuto un appuntamento per la sera dell’11 febbraio a Roma con il prof. Ronzoni, primario di urologia al policlinico Gemelli, reparto nel quale Attilio si era specializzato e aveva lavorato per anni. Inspiegabilmente e senza alcuna comunicazione preventiva, Attilio Manca non si presentò a quell’appuntamento. Rimane anche un mistero, che la Procura e la Squadra mobile di Viterbo non hanno fatto nulla per sciogliere, che cosa abbia fatto e dove sia stato Attilio Manca fra la sera del 10 febbraio e il momento della sua morte, avvenuta, come si è detto, nella notte fra l’11 ed il 12 febbraio 2004. Un dato certo, però, proviene dalla testimonianza del vicino di casa, il quale, sentito lo stesso 12 febbraio, dichiarò che la sera prima, verso le 22,15 dell’11 febbraio 2004, aveva sentito il rumore della porta di casa di Attilio che veniva chiusa. Questo dato attesta che in quel momento Attilio tornava a casa o, viceversa, che qualcuno, ancora oggi non individuato, usciva da casa sua, in un’ora molto vicina alla morte di Attilio. Nell’abitazione di Attilio a Viterbo vennero fatti gli accertamenti dattiloscopici dalla polizia scientifica. Vennero rinvenute impronte palmari e digitali in un certo numero: non tutte, però, appartenevano ad Attilio. Alcune, quindi, erano state apposte da persona o persone diverse. Alcuni mesi dopo, dalle comparazioni effettuate dal gabinetto centrale della polizia scientifica, risultò che il titolare di una delle impronte era il cugino di Attilio, Ugo Manca. Venne allora sentito dalla polizia Ugo Manca, pregiudicato per detenzione abusiva di arma e condannato in 1° grado per traffico di droga, oltre che frequentatore di molti personaggi di interesse investigativo, come Angelo Porcino, Lorenzo Mondello, Rosario Cattafi ed altri. Ugo Manca riferì alla polizia che quella impronta poteva averla lasciata nell’unica occasione in cui, a suo dire, era stato ospite del cugino, il 15 dicembre 2003, allorché si era recato a Viterbo, dove il giorno successivo venne ricoverato all’ospedale Belcolle ed operato proprio da Attilio, per un intervento in verità banale. Sennonché i genitori di Attilio Manca hanno riferito alla polizia come fra il 23 ed il 24 dicembre 2003 essi alloggiarono a Viterbo a casa di Attilio e come in quei giorni la signora, come ogni madre premurosa di un figlio che vive fuori sede da solo, aveva provveduto ad un’approfondita pulitura della casa, ivi compreso l’ambiente nel quale era stata ritrovata l’impronta di Ugo Manca. Tale evenienza contrasta con la tesi di Ugo Manca. Una decina di giorni prima di morire, Attilio, parlando con i suoi genitori, chiese loro notizie di un tale Angelo Porcino. Disse loro che era stato contattato telefonicamente dal cugino Ugo Manca e che questi gli aveva preannunciato che Porcino sarebbe andato a trovarlo a Viterbo perché aveva bisogno di un consulto. Contemporaneamente, in effetti, Ugo Manca disse a una terza persona, che di lì a poco sarebbe andato a Viterbo a trovare Attilio. Nessun accertamento è stato fatto dalla Procura e dalla Squadra mobile di Viterbo circa l’eventuale presenza di Porcino a Viterbo nei giorni precedenti la morte di Attilio. Né è mai stato verificato quale fosse la ragione che indusse Ugo Manca, giunto nella mattina del 13 febbraio 2004 a Viterbo, a tentare di entrare nell’appartamento di Attilio ed a presentarsi in Procura per sollecitare il dissequestro dell’immobile ed il pronto rilascio della salma di Attilio. Comportamenti, peraltro, contraddittori con il distacco assoluto che, a partire dal 15 febbraio 2004, Ugo Manca riservò ai genitori di Attilio, ben prima che essi iniziassero a manifestare dubbi sull’uccisione del figlio. Altro accertamento finora mancante è quello relativo ad un viaggio effettuato da Attilio Manca nell’autunno del 2003 nel sud della Francia, asseritamente per assistere ad un intervento chirurgico, come egli disse ai suoi genitori. Nel 2005 nell’inchiesta che porta alla maxi operazione antimafia denominata “Grande Mandamento” emerge che Bernardo Provenzano è stato a Marsiglia: una prima volta dal 7 al 10 luglio 2003 per sottoporsi a radiografie e ad esami di laboratorio e in un secondo momento proprio nel mese di ottobre dello stesso anno per subire l’operazione alla prostata. Ed ecco che al mistero sulla morte di Attilio Manca si aggiunge questo inquietante tassello legato a questa strana “coincidenza”. Comincia la battaglia giudiziaria della famiglia Manca che non accetta minimamente l'idea che la morte di Attilio finisca archiviata come suicidio. Angelina e Gino Manca si affidano all'avvocato Fabio Repici, un penalista molto noto in Sicilia, legale di diversi familiari di vittime di mafia, difensore tra l'altro nel processo per l'omicidio di Graziella Campagna, così come per quello di Beppe Alfano. Attraverso una meticolosissima ricerca e un'infaticabile attività investigativa, l'avv. Repici ricostruisce pezzo per pezzo la strana morte del dott. Manca riuscendo così ad evitare l'archiviazione del caso come suicidio.
Il 18 ottobre 2006 il Gip del tribunale di Viterbo, Gaetano Mautone, riapre il fascicolo sulla morte di Attilio Manca. Il Gip accoglie il ricorso con il quale la famiglia di Attilio si è opposta per la seconda volta alla richiesta di archiviazione del caso avanzata dalla procura della Repubblica di Viterbo, secondo la quale il giovane si sarebbe suicidato. Il Gip di Viterbo dà mandato al pm di far eseguire, entro tre mesi, l'esame del Dna su alcuni mozziconi di sigarette e sugli strumenti chirurgici (un bisturi, un paio di forbici, un ago e del filo di sutura) trovati su un tavolo nell'abitazione di Attilio Manca. In particolare il Gip dispone che il Dna venga confrontato con quello di Angelo Porcino.
Il 9 marzo 2007 la procura della Repubblica di Viterbo emette dieci avvisi di garanzia nell'ambito dell'inchiesta sulla morte di Attilio Manca. Gli avvisi di garanzia sono finalizzati a mettere a confronto il Dna di tutte le persone che hanno frequentato la casa di Attilio con quello rilevato su un mozzicone di sigaretta e sugli strumenti chirurgici (un bisturi, un paio di forbici, un ago e del filo di sutura) trovati nell'appartamento di Attilio.
Nell'ambito degli accertamenti sulla morte del medico, uno degli avvisi di garanzia emessi dalla procura di Viterbo viene notificato ad Angelo Porcino, già in carcere con l'accusa di tentata estorsione con l'aggravante mafiosa. Tra gli indagati c'è anche il cugino di Attilio Manca, Ugo Manca.
Il 17 marzo 2007 viene disposto lo svolgimento di un incidente probatorio, per accertamenti relativi al Dna dei dieci indagati. Su richiesta del Pm il Gip di Viterbo stabilisce che il Dna delle dieci persone raggiunte nei giorni precedenti da avviso di garanzia per i reati di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto e omicidio colposo, venga comparato con quello rilevabile sia nelle cicche di sigaretta sequestrate nell'abitazione di Attilio che sugli strumenti chirurgici trovati nella sua camera da letto, al fine di risalire alla persona sulla quale siano stati eventualmente utilizzati.
Il giorno 1 luglio 2008 il Gip di Viterbo dispone un ulteriore supplemento d'indagine sulla morte di Attilio Manca. Il gip Mautone, su richiesta del legale della famiglia Manca, dispone il confronto delle impronte digitali trovate nell'appartamento di via Santa Maria della Grotticella (dove fu trovato il cadavere di Attilio), con quelli di due concittadini del medico, collegati con ambienti mafiosi barcellonesi, che erano a Viterbo quando il medico morì.
Il 14 novembre 2008 si conclude l'incidente probatorio. Davanti al Gip Gaetano Mautone avviene l'audizione del perito che nei giorni precedenti aveva presentato una relazione scritta inerente le impronte digitali rinvenute a casa di Attilio Manca.
La perizia riscontra che 14 delle impronte rilevate sono di Attilio. Una particolarità della perizia riguarda una impronta ritrovata su una piastrella del bagno che corrisponde, con canone di assoluta certezza, ad Ugo Manca, cugino di Attilio.
Un'altra ancora riguarda la presenza di 3 impronte che non appartengono a nessuno degli indagati, ne tanto meno ai familiari del giovane urologo.
In virtù del fatto che nel periodo di Natale del 2003 Angelina, Gino e Luca Manca erano stati ospiti a casa di Attilio e che in quella occasione la signora Angelina aveva provveduto a fare una pulizia a fondo dell'appartamento del figlio, il ritrovamento dell'impronta del cugino di Attilio resta un giallo.
Ugo Manca ha sempre dichiarato di aver fatto visita alla casa di Viterbo del cugino tra il 15 e il 16 dicembre del 2003 e non dopo.
Non si spiega quindi come dopo un'accurata pulizia di tutto l'appartamento eseguita dalla signora Angelina nei giorni di Natale di quello stesso anno sia risultata un'impronta di Ugo Manca proprio nel bagno. Il bagno è di fatto il luogo dove è presente una maggiore umidità che è la causa primaria del deperimento delle impronte, ma ciononostante l'impronta di Ugo Manca è rimasta.
Così come il mistero che ruota attorno a lui.
A conclusione dell'incidente probatorio gli atti sono stati restituiti al Pm, il dott. Renzo Petroselli, che si è riservato le decisioni da assumere.
Nel frattempo resta ancora da sciogliere il nodo delle responsabilità di Bernardo Provenzano nella morte del giovane urologo.
Solamente dopo potremo

martedì 10 febbraio 2009

Invasione di campo

La città continua ad essere meta delle incursioni di politici che nulla hanno a che vedere con le sue vicende amministrative. E’ la seconda volta che l’on.Giulia Adamo si intromette, non si capisce a quale fine, nelle scelte politiche di questa città, incurante di scompaginare gli assetti all’interno della sua stessa coalizione. Lo fece cinque anni fa, osteggiando la candidatura Cristaldi e poi quella di Genova, e imponendo una candidatura Tumbiolo, poi risultata perdente, con il risultato di far perdere al ballottaggio il candidato del centro destra. Farà lo stesso anche questa volta? Ci piacerebbe conoscere le motivazioni.




sabato 7 febbraio 2009

Caso Englaro

Può una vicenda strettamente personale diventare un caso nazionale fino al punto da causare un grave conflitto istituzionale dalle conseguenze imprevedibili anche per le sorti della nostra democrazia? In questa circostanza, assai penosa sotto il profilo umano, qualcuno è andato oltre le proprie intenzioni. Se accanimento si tratta, esso è visibile. Mai e poi mai era ipotizzabile che la stessa istituzione di garanzia, rappresentata dal Capo dello Stato, potesse essere messa in discussione da una scelta politica che si fonda su sensibilità soggettive e non sugli interessi generali. Ancor più sorprendente appare l’ostinata insistenza dei familiari della Englaro a far valere il loro “diritto”, non confortato da una legge, di avvalersi di una struttura pubblica, per porre fine al caso in questione. Dinanzi ad una ipotesi di conflitto tra Istituzioni, non sarebbe stato il caso, da parte dei familiari della Englaro, di limitare il tutto nell’ambito della stessa sfera privata?

venerdì 6 febbraio 2009

Si è ingrigito il prof.

Si è ingrigito il prof

di Roberta Carlini


Salgono in cattedra sempre più tardi. Sono i più anziani d'Europa. Per i docenti italiani è allarme invecchiamento.


E Lucia insegna inglese e l'anno scorso ha avuto per la prima volta studenti davvero 'suoi': finalmente in ruolo, quarantacinquenne, trent'anni di distanza dai ragazzi seduti di fronte a lei. Sua madre Antonietta, adesso settantenne, era salita in cattedra a 24 anni: tra la neoassunta professoressa di storia e il più giovane dei suoi studenti c'erano dieci anni di differenza. Di madre in figlia, la scuola italiana ha messo i capelli grigi, se non bianchi. L'età media dei docenti all'ingresso è quasi raddoppiata, e abbiamo i prof più vecchi d'Europa. Una situazione aggravata dall'ultima infornata di docenti, i 50 mila assunti col piano dell'ex ministro Giuseppe Fioroni. E bloccata per il futuro, con le scuole di specializzazione chiuse, i concorsi aboliti e le antiche graduatorie dei precari sigillate. Una ipotetica nipote di Antonietta, se avesse oggi 24 anni, non potrebbe neanche bussare alle porte della scuola. "Così, stiamo perdendo una generazione di insegnanti", lancia l'allarme la Fondazione Agnelli, che ha fotografato il fenomeno e presenterà l'11 febbraio a Roma il 'Rapporto sulla scuola 2009'.
Come Lucia, sono state in tante le ultraquarantenni approdate in cattedra con il piano dei 50 mila. In gran parte donne, con alle spalle una lunga permanenza nelle graduatorie scolastiche che da decenni sono la fonte di reclutamento prevalente. Anzi unica, visto che dal '99 non si bandiscono più concorsi nelle scuole. Da allora, l'età media dei docenti di ruolo italiani è cresciuta di quasi quattro anni: adesso è sui 50. Con lo sbarco dei 50 mila non sono arrivate forze fresche, tutt'altro. Il 'Rapporto' mette sotto la lente le new entry, con una ricerca condotta in Piemonte, Emilia Romagna e Puglia (in totale circa 10 mila neoassunti, in pratica uno su cinque). Ne viene fuori un'età media di ingresso di 41 anni e due mesi: vale a dire che i docenti del 2008 hanno ottenuto la cattedra con quasi vent'anni di ritardo rispetto ai loro colleghi degli anni '60. Ma non è tutto. Dentro le medie, come sempre, c'è di tutto. Anche un buon 13,7 per cento di neoassunti tra i 50 e i 60 anni, e un 1,2 che sta addirittura al di sopra dei 60: dunque potrebbe essere andato in pensione subito dopo essere entrato in ruolo. Mentre i neoassunti con meno di 30 anni sono solo il 2,5 per cento del totale.
Come si spiega questo enorme balzo in avanti dell'età media? "Si è creato un imbuto per entrare nella scuola, e questo rallenta tutto", dice Stefano Molina, ricercatore della Fondazione Agnelli. Lo confermano i numeri sugli anni di precariato dei neoassunti: 10,7 in media, con un crescendo dalla materna alle superiori. Qui, il 54,6 per cento dei docenti assunti ha più di dieci anni di servizio alle spalle, proviene dal precariato lunghissimo delle graduatorie e delle supplenze. I contenitori delle infinite liste d'attesa, fatti come un recipiente con due tappi: con il tappo A pronto a riaprirsi da un lato man mano che le immissioni in ruolo lo svuotavano dal tappo B.

È successo anche nell'anno della fuoriuscita dei 50 mila, compensati subito da nuovi ingressi, finché l'allora ministro Fioroni non ha chiuso il tappo A, e la lista d'attesa è diventata 'a esaurimento'. Ciononostante, ancora adesso è assai numerosa: è un esercito di 336.337 persone. Va detto che tra queste oltre 70 mila sono già docenti di ruolo, iscritti nelle graduatorie solo perché vogliono cambiare materia o scuola: e però, anche senza considerare questi ultimi, abbiamo comunque 260 mila precari in lista d'attesa, età media 37 anni. È vero che sono alle viste un bel numero di pensionamenti (300 mila in dieci anni, prevede il 'Rapporto'), ma con i tagli delle ore di lezione, il maestro unico e le eventuali nuove regole sulle pensioni, c'è da scommettere che prima che questo esercito entri in ruolo la sua età media si sarà alzata di un bel po'. Secondo stime ministeriali, i tempi d'attesa per insegnare materie letterarie alle superiori sono di nove anni, mentre per lingue straniere sono addirittura 21. Fanno eccezione solo le graduatorie delle materie scientifiche al Nord, che sono già quasi esaurite (e in assenza di concorsi si comincerà ad assumere supplenti, ricominciando ad alimentare il precariato).

continua

lunedì 2 febbraio 2009

I fanghi della Bertolino

Di Testa e non di Pancia



Puntualmente, con cadenza ciclica, si ritorna a parlare della vicenda Bertolino, ovvero, della pericolosità che tale azienda costituisce per la salute e l’incolumità dei cittadini. Ma l’argomento ultimo, quello dello stoccaggio dei fanghi trattati, derivati dalla distillazione delle vinacce, per i quali è sorto, attraverso un tam tam sulla rete, un movimento “ Mazara Contro la Bertolino” non sembra essere stato affrontato con la dovuta serenità, scientificità, razionalità; si è preferito creare allarmismi, ricorrere alla piazza, portare avanti ipotesi demonizzanti basati su pregiudizi, e cavalcare, attraverso la disinformazione, l’emotività e l’ingenuità delle masse, soprattutto quelle giovanili, più eccitabili ma anche più sensibili ai problemi ambientali e , perché no, della salute. Qualcuno, inoltre, ha interesse ad innalzare il livello del chiasso per trarne qualche vantaggio politico, dimenticandosi del suo ruolo politico che è quello di sedare gli impulsi più che attizzarli e di controllare che tutto si compia in conformità alle normative, che in materia ambientale sono molto rigide anche se complesse e talvolta ambigue. La questione dei fanghi, oggetto della contestazione è paradigmatica della complessità della normativa e dello sbraitare inconsulto di chi dell’agitare la piazza ne fa una professione. Innanzitutto occorre chiedersi se questi fanghi costituiscono una fonte pericolosa per l’ambiente o per le persone, occorre, cioè, conoscere la loro capacità inquinante e la loro pericolosità per la salute. Ancora, se essi sono classificati tra i rifiuti pericolosi, oppure, se opportunamente trattati, come richiesto dalla norma, essi possono essere impiegati nel campo dell’agricoltura, come ammendanti o in associazione a fertilizzanti; se sono state eseguite tutte le procedure e i controlli richiesti per consentire lo stoccaggio e lo scarico in terreni; se questi terreni sono idonei a riceverli in base alla loro natura geofisica e alla loro composizione chimica, Ph > 5; C.S.C > di 8 meg/100gr,( il c.s.c è la capacità che ha il terreno di scambiare gli elementi; maggiore è il suo valore, minore è il pericolo di inquinamento) e se per questi terreni non ricorrano le condizioni previste dalla legge che ne vietano lo scarico. ad esempio: quando sia stata comunque accertata l'esistenza di un pericolo per la salute degli uomini e/o degli animali e/o per la salvaguardia dell'ambiente. La legge a tal proposito indica anche i soggetti preposti al controllo delle procedure da eseguire nel rispetto della normativa. Fatti questi controlli e verificata la pericolosità dei fanghi, è chiaro che essi non possono essere scaricati. Ma se al contrario, detti fanghi non costituiscono pericolo alcuno, ci si chiede: può l’azienda Bertolino scaricare i fanghi in terreni di sua proprietà, se questi risultano idonei a riceverli? Si tratta di dare una risposta che veda la civiltà del diritto prevalere sul diritto dell’inciviltà. Questo intendevo quando invitavo ad una maggiore ponderatezza sulla questione: avere reazioni meno impulsive, che provengano dalla testa e non dalla pancia. Per avere cercato di incanalare il dibattito lungo un binario di correttezza e di civiltà sono stato fatto oggetto di improperi e di insulti da parte dei soliti imbecilli che alla testa preferiscono la pancia, e che del problema sconoscono i fondamenti di base.

L.T