Cartesio


Non c'è nulla interamente in nostro potere,se non i nostri pensieri.
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venerdì 2 novembre 2012

La Contea, il Borgo e i Cavalieri Serventi



La Contea, il Borgo e i Cavalieri Serventi

di Luigi Tumbarello

C’era una volta una Contea.
 Essa era governata da un Principe barbuto, potente, straricco,stracolmo di proprietà, nobili palazzi e ricchi feudi sparpagliati nelle diverse contrade di ponente che ricadono sotto la Sua potestà, e da alcuni Baroni, scaltri, meno danarosi ma non meno potenti; tra costoro faceva spicco anche una nobile dama, maliarda,tenace e pugnace. Costoro dominavano l’intera Contea dal Mare ai Monti,da ponente a levante, ed erano vezzi a circondarsi di cortigiani e coorti di servitori,valletti,palafrenieri e paggi provenienti dai vari borghi ricadenti sotto la loro giurisdizione.
 Tutti gareggiavano nel mostrare chi fosse più ossequioso, più deferente, più adulatore, più servile nei confronti dei Padroni. Un viaggiatore errante che entrava attraverso la porta principale di uno di questi borghi, una volta “ Inclito”, poteva notare  sopra l’arcata di essa una lapide con una scritta:

”Pammilus instituit liquide prope fluminis undam
Mazariam nomen Mazarus ipse dedit”.

Tale Borgo, millantando  sì illustre progenie, era governato da gente andante, priva di una salda identità, dominata dal gene della piaggeria e della trasmutazione, persone dalle cento maschere e dai mille travestimenti,compiacenti e sensibili alle altolocate lusinghe,alfieri nello spoliare il borgo dai suoi beni per offrirli alla disponibilità delle maestà. Non erano da meno i borgatari, sempre festaioli e voraci onnivori dell’effimero, impavidi demolitori delle belle e nobili vestigia del borgo, rimembranze della sua antica magnificenza. Costoro si mostravano, per natura, indifferenti scopini della memoria e provetti sarti nel tagliare i panni addosso al vicino, considerato unico reo delle proprie disgrazie. Questi indigeni erano anche proclivi ad arruolarsi sotto le insegne altrui, non facendo capo, il Borgo, a Signori di nobile casato. L’unico Signorotto di borgata noto per il suo acume e la sua sagacia nonché per la sua insofferenza alle Signorie costituite, era stato relegato, in attesa di mettere fine alla sua alterigia, alla potestà di un piccolo feudo sperduto all’ interno della Contea; al messere, però, per tenerlo  a freno,veniva  concesso  anche uno scranno nel Consiglio della Corona così  da potere soddisfare i suoi bisogni e ostentare la sua nobilitate. Allo stesso fu dato il consenso di potere soddisfare la sua brama di ascesa anche al dominio del natio borgo dove s’insediò con un manipolo di suoi fidi: menestrelli di corte,legulei, amanuensi,messi e agrimensori;in cambio fu costretto a rinunciare a far parte del Consiglio della Corona,e conseguente fu la rottura del patto di non belligeranza con il barbuto Signore della Contea del quale ne divenne indomito rivale. Ebbe così inizio una epopea di tenzoni dalle quali il fiero signorotto ne uscì ferito,più nell’orgoglio che nel corpo,e costretto a trincerarsi  con un manipolo di fedeli nel  palazzo del borgo,non disdegnando,di tanto in tanto,qualche sortita nei feudi viciniori alla ricerca di  nuove alleanze per una rivalsa contro lo strapotere della baronia.  Era in uso suggellare siffatte alleanze festeggiando attorno a lussuose tavole imbandite dove venivano offerte agli ospiti ricche ed abbondanti libagioni insieme, come segno di riconoscenza,a grassi e teneri agnelli del gregge del signorotto.
Nel borgo,dopo gli osanna iniziali della plebe per l’ascesa del Signorotto,un lungo periodo di carestia provocò la mancanza di grano e di  farina,mentre aumentavano le gabelle per il sostentamento dei cortigiani. Il popolo,che si impoveriva di giorno in giorno, incominciò a lamentarsi prima mormorando e poi rifiutandosi di pagare i dazi. Nonostante nei forzieri del palazzo arrivassero sempre meno tributi,il Signorotto, ascoltando dai trovatori i racconti sul grande Svevo Imperatore,ne subì talmente il fascino che volle emularlo chiamando alla sua corte poeti,fabbri,artisti e persino affabulatori berberi  che ne cantarono le lodi.
 Egli stesso si cimentò nell'arte della scrittura e del decoro mostrando il suo estro nei vicoli,nei cortili, nelle piazze e nelle contrade  del borgo che girava con il suo carro bardato a festa  e arricchito da  preziosi finimenti.
 Anche nel Consiglio del borgo i malumori e le invettive contro il signorotto si facevano sempre più forti per l’aumento dei tributi e c’era chi proponeva di arruolare armigeri per abbattere la potente Signoria.
Il Borgo, per le sue bellezze paesaggistiche e per la minchioneria dei suoi abitanti, costituiva meta delle scorribande delle popolazioni delle vallate circostanti, che una volta entrati, spesso vi dimoravano definitivamente,vi aprivano botteghe e attività commerciali e si arricchivano con il benestare dei locali.


Nel Borgo, ma in tutta la Contea, per la verità, con una cadenza quasi biennale, aveva inizio una Giostra;i vicoli,i cortili,le strade e le  piazze venivano inghirlandate con stemmi e con vessilli e in esse echeggiavano rulli di tamburi e squilli di trombe suonate dagli araldi. Per l’occasione agli zelanti servitori era concesso dai loro Signori di essere innalzati al rango di valvassori;era loro consentito di indossare preziose cappe ed elmi con piume cromate per poterle ostentare alla gleba, e permesso,anche, di potere circondarsi di armigeri arruolati per l’occasione.
 Tutto avveniva sotto gli sguardi compiaciuti, caritatevoli e magnanimi delle Signorie del Principe e dei Baroni i quali non disdegnavano di farsi ritrarre in confidenza accanto ai loro fidi. I vincitori della disfida potevano avvalersi delle grazie delle loro maestà fino alla prossima tenzone e fregiarsi dell’alto titolo di Messaggeri del Borgo; acquistavano diritto di sedere sugli scranni del Consiglio della Contea o del Consiglio del Borgo nell’attesa che venisse loro riconosciuta per i servigi prestati la potestà di un feudo o concesso il governo del Borgo.
 Nell'intervallo tra un Torneo e l’altro i cavalieri riprendevano il loro ruolo di palafrenieri,di valletti e di paggi cambiando padroni e signorie,mentre il popolo continuava a festeggiare,ad ingozzarsi,a brontolare,ad inveire,a piagnucolare e ad invecchiare con le proprie sventure .
 Il viaggiatore,che mesto attraversava la porta di uscita dal Borgo vi osservava una lapide  con su scritto:

“Heu quam magna olim, tam modo facta nihil.”


1 commento:

David Castelli ha detto...

Caro Luigi, li sturii tuttie mi cunti puru lu cuntu, qual novello siculo berlusca...... ritengo però che tu non v oglia sbilanciarti sulla sorte finale di lu "giovani" tipu li film di cow boy di na vota... chi fà, all'ultimu l'ammazza a lu trarituri?