Cartesio


Non c'è nulla interamente in nostro potere,se non i nostri pensieri.
Cartesio

mercoledì 3 giugno 2009

Inclita Urbs

C’era una volta una Contea. Essa era governata da un aristocratico barbuto, potente, straricco, stracolmo di proprietà, nobili palazzi e ricchi feudi sparpagliati nelle diverse contrade che ricadono sotto la Sua potestà, e da alcuni Baroni, scaltri, meno danarosi ma non meno potenti; tra costoro faceva spicco anche una nobile dama, bella, tenace ed agguerrita. Essi dominavano l’intera Contea dal Mare ai Monti ed erano vezzi a circondarsi di una corte eterogenea di servitori, valletti, palafrenieri, paggi, provenienti dai vari borghi ricadenti nella loro giurisdizione. I cortigiani erano pronti a gareggiare tra loro nel mostrare chi fosse più ossequioso, più deferente, più adulatore, più servile nei confronti del Padroni. Un viaggiatore errante che entrava attraverso la porta principale di uno di questi borghi,"una volta Inclito" poteva scorgere sopra l’arcata di essa una lapide con una scritta:

"Pammilus instituit liquide prope fluminis undam
Mazariam nomen Mazarus ipse dedit"

Questo Borgo, che millantava sì illustre progenie, era governato da gente andante, priva di una salda identità, dominata dal gene della piaggerìa e della trasmutazione, persone dalle cento maschere e dai mille travestimenti, anch’essi compiacenti e sensibili alle altolocate lusinghe, alfieri nell’espoliare il borgo dai suoi beni per offrirli alla disponibilità delle maestà. Non erano da meno i borgatari, sempre festaioli e voraci onnivori dell’effimero, impavidi demolitori delle belle e nobili vestigia del borgo, rimembranze della sua antica magnificenza. Costoro si mostravano, per natura, indifferenti scopini della memorie provetti sarti nel tagliare i panni addosso al vicino, unico reo delle proprie disgrazie. Questi indigeni erano anche proclivi ad arruolarsi sotto le insegne altrui, non facendo capo, il Borgo, a Signori di nobile casato. L’unico Signorotto di borgata, noto per il suo acume e la sua sagacia nonché per la sua insofferenza alle Signorie costituite, era stato relegato, in attesa di mettere fine alla sua alterigia, alla potestà di un piccolo feudo sperduto della Contea; al messere, però, per tenerlo buono,veniva sempre concesso uno scranno nel Consiglio della Corona, tale da potere soddisfare ai suoi bisogni e ostentare la sua nobilitate. Il Borgo, per le sue bellezze paesaggistiche e per la minchioneria dei suoi abitanti, costituiva meta delle scorribande delle popolazioni delle vallate circostanti, che una volta entrati, spesso vi dimoravano definitivamente vi aprivano botteghe, locande e attività commerciali, e si arricchivano con il benestare dei locali. Nel Borgo, ma in tutta la Contea, per la verità, con una cadenza quasi biennale, aveva inizio una Giostra; strade e piazze venivano inghirlandate con stemmi e con vessilli e invase dagli squilli di trombe suonate dagli araldi. Per l’occasione, agli zelanti servitori era concesso, dai loro Signori, di essere innalzati al rango di Signorotti; era loro consentito, in via eccezionale, di indossare preziose cappe ed elmi con piume cromate da ostentare ostentare alla gleba, e permesso ,anche, di potersi circondare di armigeri arruolati per l’occasione. Tutto avveniva sotto gli sguardi compiaciuti, caritatevoli e magnanimi delle Signorie del Principe e dei Baroni, i quali non disdegnavano di farsi ritrarre in confidenza accanto ai loro fidi. I vincitori della disfida potevano avvalersi delle grazie delle loro maestà fino alla prossima tenzone e fregiarsi dell’alto titolo di Messaggeri del Borgo; acquistavano diritto di sedere sugli scranni del Consiglio della Contea o del Consiglio del Borgo, nell’attesa che venisse loro riconosciuta, per i servigi prestati, la potestà di un feudo o concesso il governo del Borgo. Nell’intervallo tra un Torneo e l’altro, i cavalieri riprendevano il loro ruolo di palafrenieri, di valletti e di paggi e il popolo continuava a festeggiare, ingozzarsi, brontolare, inveire, piagnucolare, e ad invecchiare con le proprie sventure . Il viaggiatore, che mesto attraversava la porta di uscita dal Borgo vi osservava una lapide e in essa una figura di donna che allatta una serpe al posto del pargolo che vi giace ai piedi e sotto una scritta:

"Matronae insiliens anguis quique ubera siccet…
Heu quam magna olim, tam modo facta nihil"

La Contea e il borgo appena descritti ci danno una rappresentazione immaginifica della nostra realtà. Le piazze e le strade, in questi giorni, sono piene zeppe di comitati elettorali imbandierati e tappezzati con decine di gigantografie dei candidati che concorrono per la conquista della poltrona di primo cittadino o di uno scranno al Consiglio Comunale.. La politica si sposta nei pub o negli happy hours, tra un drink, un lunch e uno snack. Ed è in questo paradossale clima festaiolo che avvengono le metamorfosi: nani che si mostrano giganti, medici che disquisiscono di economia globalizzata, farmacisti che si inventano pubblicisti con slogan non sense, rampolli di armatori che prospettano le loro soluzioni per far fronte alla crisi dei settori agricolo – ovino - caseario, edili che disegnano le strategie della futura sanità, imbianchini che si esercitano con colorite disquisizioni nel pennellare la sociologia dell’integrazione e del multiculturalismo interreligioso. Non manca, in questa amena fiera della vanità, il serio professionista che ha il gene della passione politica nel proprio genoma. Quello che più colpisce è l’obnulamento e l’incapacità della percezione reale degli eventi da parte dei candidati privi di blasone, ovvero l’assenza di una seria autoanalisi che li vede strumentalizzati e finalizzati alla raccolta del maggior numero di voti per i veri signori e padroni della politica. Una considerevole quantità di voti che l’elettorato mazarese non è stato mai capace di gestire adeguatamente per eleggere con dignità, una propria e autonoma rappresentanza politica. La città è diventata territorio di scontro in cui il ricorrere ai toni alti, spesso al di sopra delle righe, alla contumelia e all’offesa personale ha avuto il sopravvento sul dibattito civile, almeno da parte di qualche autorevole candidato. Una strana campagna elettorale, quella che sta per finire, che avrà indubbiamente un seguito nei palazzi della politica che conta; abbiamo assistito ad una battaglia campale disordinata, senza strategie di lunga prospettiva, e imperniata su tatticismi di maniera, con strane e impensabili alleanze tra personaggi apparentemente inconciliabili tra loro. Quanto accade dovrebbe costituire motivo di riflessione per le coscienze politiche più o meno illuminate e più o meno sensibili ai destini e ai bisogni di una città in perenne declino e dalla quale non si intravedono, ancora una volta, segnali di resipiscenza dei propri errori. La costruzione di una nuova classe politica passa, per forza di cose, attraverso il riconoscimento della propria condizione di sudditanza, e da questa consapevolezza deve conseguire una azione che abbia come fine l’affrancarsi da tale asservimento. Ancor di più a seguito della caduta delle ideologie. Tutte le energie della comunità, ancora una volta,non sono state orientate a progettare un nuovo modo di fare politica, con una particolare attenzione all’immagine e alla credibilità dei soggetti candidati, a prescindere dalla loro appartenenza. Se questa comunità non avrà quello scatto di orgoglio e di dignità tale da fare uscire dalle urne un segnale di svolta e di liberazione dal neocolonialismo politico, e non saprà dotarsi di una rappresentanza politica emancipata, autorevole e culturalmente adeguata ai suoi bisogni, essa continuerà ad essere mal gestita da una classe dirigente mediocre e dannosa che la relegherà irreversibilmente verso una condizione di paria della politica.

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